di Marco Follini
Ancora una manciata di ore, e sapremo chi avrà vinto le presidenziali francesi. In un caso e nell’altro, le conseguenze saranno evidenti. Sia quelle relative al posizionamento internazionale, sia quelle legate all’agenda di casa. Macron e Le Pen incarnano due idee ben diverse della Francia e in entrambi i casi a questo punto gli elettori sanno bene a cosa vanno incontro.
Un punto a favore del semipresidenzialismo, voluto più di mezzo secolo fa dal generale De Gaulle e assurto a simbolo della quinta repubblica francese e del suo buon funzionamento. E’ piuttosto ovvio che a un anno dalle elezioni politiche di casa nostra l’argomento incrocerà i destini italiani, e ridarà fiato a quanti sostengono che non usciremo mai dal pantano senza rivedere in profondità il nostro assetto istituzionale.
In realtà non c’è quasi mai niente di casuale, né di improvvisato nel modo in cui i paesi si organizzano. I francesi lo hanno fatto contemplando l’idea del rischio. Idea consona a un paese che ha sperimentato la rivoluzione e il regicidio e che chiede alla politica un altro grado di dinamismo. Noi, a nostra volta, ci siamo organizzati piuttosto sotto il segno della prudenza. Cercando compromessi, praticando rassicuranti vie di mezzo, evitando con cura anche solo il sospetto di un troppo robusto accentramento di poteri.
E’ evidente che c’è del metodo, da una parte e dall’altra. Ma è evidente pure che il metodo non può diventare un feticcio. Tant’è che la Francia negli anni di Mitterrand ha cambiato la sua legge elettorale, passando dal maggioritario alla proporzionale. E che anche noi abbiamo visto, rivisto e cambiato un certo numero di volte alcuni tratti del nostro assetto istituzionale. Tutto questo andirivieni non ha risolto i problemi: né i nostri, né i loro. E ha finito per rivelare un aspetto comune tra le nostre due esperienze: e cioè la crisi dei partiti. Scomparsi i nostri, quelli storici (Dc, Pci, Psi e tutti gli altri). E ridotti a comparse quasi insignificanti i loro (gaullisti, socialisti, protagonisti di decenni e decenni di contese d’oltralpe).
Dunque, non sono rose e fiori neppure per loro. Ma il sistema che si sono dati sembra avere qualche vantaggio in più di cui faremmo bene a tener conto. Il primo vantaggio è che appunto già stasera si saprà chi ha vinto, e per cinque anni l’Eliseo resterà un punto fermo. Il secondo vantaggio è che in quella sfida a due si sono viste con chiarezza due opzioni di politica estera, nettamente delineate. Mentre da noi nelle due coalizioni principali (ammesso che restino due, e che restino queste) albergano una quantità di sfumature per le quali un po’ di atlantismo e un po’ di antiatlantismo, diverse gradazioni di europeismo, il tifo per Zelenski e l’indulgenza per Putin, tutto queste cose e altre ancora convivono di qua e di là senza venire a capo del grande tema della collocazione internazionale del nostro paese.
Ora, forse non sarà il caso di precipitarsi a cambiare le cose sotto l’effetto dell’invidia che le istituzioni francesi possono destare. Anche il loro sistema infatti ha i suoi difetti, e non è affatto detto che se lo importassimo tale e quale verremmo a capo dei nostri malumori. Resta il fatto però che quel passaggio brusco che condusse sul finire degli anni cinquanta dalla quarta alla quinta repubblica ebbe almeno il merito di costringere i francesi dell’epoca a compiere una scelta. Mentre noi abbiamo continuato ad arrovellarci tra un modello e l’altro, tra una suggestione e l’altra, senza venire mai del tutto a capo dei nostri dilemmi. E soprattutto, senza farci un’idea del tipo di paese che -politicamente- vogliamo essere.
Forse sarebbe arrivato anche per noi il momento di prendere nelle mani la questione. E decidere una volta per tutte se vogliamo rischiare qualcosa in più o se vogliamo tenerci stretta la nostra storica prudenza. Non si può continuare a confidare di poter disporre della botte piena e della moglie ubriaca. Anche perché a restare fermi troppo a lungo si rischia semmai di avere botti vuote e mogli astemie