Era il 28 maggio del 2013 quando Alma Shalabayeva venne fermata dalla Polizia di Stato mentre si trovava in una villa a Casalpalocco, dove gli agenti stavano cercando il marito, il dissidente kazako ex banchiere Mukhtar Ablyazov, allora ricercato per truffa e associazione criminale, destinatario di un mandato internazionale d’arresto dell’Interpol. Alla donna venne contestato il possesso di un passaporto falso e, pochi giorni dopo, venne espulsa insieme alla figlia di sei anni, e fatte imbarcare e partire su un aereo diretto in Kazakistan.
Espulsione che però venne revocata il successivo 5 luglio, dopo che Ablyazov si era appellato all’allora premier Enrico Letta. Alcuni giorni dopo la Procura di Roma aprì un’inchiesta su presunte irregolarità nell’espulsione della Shalabayeva, fascicolo che poi venne assegnato per competenza alla Procura di Perugia. dal maggio 2013.che Una vicenda ha fatto discutere per anni, arrivando a lambire la soglia del Viminale, con le dimissioni dell’allora capo di gabinetto del ministro Angelino Alfano.
Successivamente a dicembre del 2013 l’allora ministro degli esteri in carica, on. Emma Bonino, riuscì ad ottenere il rientro in Italia delle due espulse alle quali venne riconosciuto lo status di “rifugiate”. Per i giudici di primo grado il trattenimento di Alma Shalabayeva e della figlia Alua, fu un evento che “sarebbe preferibile definire un ‘crimine di lesa umanità” e rappresentò “una ipotesi di patente violazione dei diritti fondamentali della persona umana“. Il collegio presieduto da Giuseppe Narducci aveva inflitto pene raddoppiate rispetto alle richieste allora sollecitate dal pubblico ministero. Le pesanti motivazioni della corte di primo grado, descrivevano una “extraordinary rendition” passata sopra diritti umani e procedure, in cui uomini dello Stato “servirono gli interessi” della “dittatura kazaka” nel caricare su un aereo e rispedire in tutta fretta al Paese d’origine la moglie e la figlia di Ablyazov.
Una ricostruzione questa contestata dalle difese degli imputati e con la riapertura dell’istruttoria dibattimentale, chiesta e ottenuta nonostante il parere contrario della procura generale, con l’avvio del processo di secondo grado sono stati ascoltati in aula i magistrati romani che nel 2013 si occuparono a piazzale Clodio del caso. Sentenza che venne impugnata dagli imputati davanti alla Corte d’appello di Perugia che, nel gennaio scorso, ha riaperto il dibattimento accogliendo la richiesta delle difese di chiamare a testimoniare in aula, tra gli altri, l’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, l’ex aggiunto Nello Rossi ed il pm Eugenio Albamonte.
L’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone nella sua testimonianza ha spiegato di “non aver mai avuto nessuna pressione da Renato Cortese” . Dopo l’esame della documentazione, ha ricordato Pignatone il 4 aprile scorso nel corso della sua deposizione, ”ci siamo convinti più che mai che il documento era falso, e dopo nove anni mi chiedo ancora come sia possibile affermare il contrario con un passaporto che riporta un nome diverso, e che fosse nostro dovere concedere il nulla osta. A quel punto il pm Eugenio Albamonte ha dettato alla mia segretaria il nulla osta e io l’ho vistato e per noi la storia finisce lì. Resto convinto della falsità del documento e non ho mai capito – ha sottolineato l’ex procuratore capo della capitale – perché quel giorno gli avvocati non abbiano chiesto l’asilo politico”.
Per la procura generale, rappresentata dal procuratore generale Sergio Sottani e dal sostituto procuratore generale Claudio Cicchella, invece, vi erano ”molti elementi che potevano portare a capire che questa donna non era Alma Ayan ma era Alma Shalabayeva. Possibile che funzionari di esperienza, che hanno portato avanti operazioni importanti contro la criminalità, non si siano posti dei dubbi? Perché questi soggetti hanno tenuto questa condotta? “ha affermato la procura generale nella requisitoria del 14 aprile scorso “Perché hanno finto di non vedere? Il perché non lo sappiamo ma abbiamo un dato che ci fa pensare. Questi funzionari hanno voluto compiacere quello che veniva chiesto dall’ambasciata kazaka e il ministero dell’Interno ha seguito questa vicenda fino all’espulsione, è sempre stato sul pezzo. Il perché lo abbiano fatto non lo sappiamo”.
Per Cortese, Improta, Stampacchia e Armeni la procura generale ha chiesto, per l’accusa di sequestro di persona, la condanna a 4 anni, per Tramma a 2 anni e 8 mesi mentre ha sollecitato l’assoluzione per Leoni e per Lavore ”perché’ il fatto non costituisce reato”. Per le accuse di falso ha sollecitato, invece, il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione. Di abusi di potere, palesi inganni, hanno parlato Rosa Conti e Diana Iraci Borgia, le due legali di parte civile difensori di Alma Shalabayeva. ”Come si fa a dire che questa procedura di espulsione era addirittura doverosa? Riteniamo che non ci sia stato nulla di legittimo. Queste generalità false sono state usate dagli imputati per dare una parvenza di legittimità all’espulsione”.
All’ipotesi dell’intrigo internazionale , al “rapimento di Stato”, come l’aveva definito il tribunale di Perugia nella condanna di primo grado, ha prevalso la tesi del corto circuito della giustizia, che ha mandato a processo e condannato in prima istanza gli uomini in divisa e la giudice di pace che si occuparono della vicenda Shalabayeva.
Oggi il ribaltamento della sentenza di primo grado, stabilendo che quello di Alma Shalabayeva in realtà non fu un sequestro di persona. La Corte di Appello di Perugia ha assolto con formula piena gli imputati tra i quali l’ex dirigente della Squadra mobile Renato Cortese e l’ex dirigente dell’Ufficio immigrazione della questura di Roma, Maurizio Improta. che rispondevano dei capi d’accusa di sequestro di persona per le presunte irregolarità legate al rimpatrio di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, espulsa verso il Kazakistan nel 2013 insieme alla figlia Alua e poi entrambe tornate in Italia.
Al termine della camera di consiglio della Corte di Appello del Tribunale di Perugia, oltre a Cortese ed Improta, sono stati assolti anche gli agenti Francesco Stampacchia, Luca Armeni, Vincenzo Tramma e Stefano Leoni e il giudice di pace Stefania Lavore, annullando la sentenza di primo grado nella quale tutti gli imputati erano invece stati condannati: Renato Cortese, Maurizio Improta, Luca Armeni e Francesco Stampacchia a 5 anni, Vincenzo Tramma a 4 anni, Stefano Leoni a 3 anni e 6 mesi.
Lacrime e abbracci alla lettura della sentenza fra colleghi e collaboratori degli imputati, arrivati da tutt”Italia. “Ho pianto tante volte da solo, l’ultima volta ieri. Un pensiero va a mio padre che subì lo stesso tormento quando ero prefetto a Napoli e ne uscì assolto. Si vede che la Corte d’appello di Perugia ha letto bene le carte, ha analizzato, ha capito di avere a che fare con persone perbene” ha commentato Maurizio Improta. “Sono profondamente amareggiato – ha detto Improta nelle sue dichiarazioni davanti ai giudici – per come sono stato definito: mi è stato detto che ho scaricato sugli altri, definito vigliacco e traditore di un giuramento fatto come funzionario di polizia e servitore dello Stato. Tutto questo non l’accetto da nove anni. Mi dispiace sentirmi dire che non ho avuto dubbi su quello che in quel momento stavo facendo in qualità di dirigente di un ufficio con trecento uomini, con cinque funzionari”.
Il superpoliziotto Cortese entrato nella storia della lotta alla mafia aver arrestato Bernardo Provenzano e fermato con le manette le mani del boss Giovanni Brusca, l’uomo che aveva premuto il telecomando che azionò la bomba di Capaci, ha preso la parola in aula in una delle ultime udienze, dopo avere seguito tutto il processo chiuso in un silenzio marziale per contestare quella sentenza “che ingiustamente mi ha condannato”. “L’unico stato d’animo che intendo portare all’attenzione della Corte – ha detto davanti ai giudici – è quello suscitato in me dall’affermazione della sentenza con la quale avrei tradito il giuramento di fedeltà alla Costituzione italiana. Credo – ha aggiunto – che tutta la mia vita e tutta la mia carriera forse avrebbero a loro volta meritato un minimo di rispetto”.
L’avvocato Ester Molinaro difensore di Cortese insieme a Franco Coppi ha definito sentenza “una pagina di grande giustizia” aggiungendo “E’ però anche la conferma che questo processo non doveva proprio essere iniziato. Il fatto non sussiste significa che l’impianto accusatorio è stato completamente sradicato dimostrando che la procedura era corretta“. “Se parliamo di un sequestro di persona – ha evidenziato durante la sua replica il prof. Coppi – è necessario che tutto l’ufficio immigrazione lo abbia deciso e si siano messi d’accordo con la squadra mobile e la digos”.
Il Capo della Polizia Lamberto Giannini con una nota ha accolto “con grande soddisfazione la sentenza della corte di appello di Perugia che ha riconosciuto la correttezza della condotta degli appartenenti alla Polizia di Stato” in relazione alla vicenda di Alma Shalabayeva.