La legge 231 del 2012, la cosiddetta “salva-Ilva“, era Costituzionale. Lo decise la Corte Costituzionale, (Presidente Gallo, Relatore. Silvestri ) con la propria sentenza n. 85 del 9 maggio 2013 che dichiarò in parte “inammissibili“ ed in parte “infondate“ le questioni di legittimità sollevate dal Gip e dal Tribunale di Taranto sulla legge salva-Ilva.
La nota della Consulta: la legge non viola i parametri della Costituzione
“La Corte costituzionale, all’esito dell’udienza pubblica e della camera di consiglio in data odierna relativamente ai procedimenti promossi dal Giudice per le indagini preliminari e dal Tribunale di Taranto» sulla cosiddetta legge salva-Ilva – si leggeva nel comunicato della Corte – «ha ritenuto in parte inammissibili e in parte non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 3 del decreto-legge n. 207 del 2012, convertito dalla legge n. 231 del 2012». «La decisione – continua la nota – è stata deliberata, tra l’altro, in base alla considerazione che le norme censurate non violano i parametri costituzionali evocati in quanto non influiscono sull’accertamento delle eventuali responsabilità derivanti dall’inosservanza delle prescrizioni di tutela ambientale, e in particolare dell’autorizzazione integrata ambientale riesaminata, nei confronti della quale, in quanto atto amministrativo, sono possibili gli ordinari rimedi giurisdizionali previsti dall’ordinamento».
La Corte Costituzionale: la 231/12 non incide sul procedimento penale
“La Corte ha, altresì, ritenuto – concludeva a suo tempo la nota – che le norme censurate non hanno alcuna incidenza sull’accertamento delle responsabilità nell’ambito del procedimento penale in corso davanti all’autorità giudiziaria di Taranto“.
Il procuratore di Taranto: le sentenze della Consulta si rispettano
Ecco quanto dichiarò all’ Ansa il procuratore di Taranto, Franco Sebastio, riferendosi alla sentenza della Consulta che dichiarò “costituzionale” la legge 231 “salva Ilva”.: “Le sentenze della Corte Costituzionale si rispettano e non si commentano”.
Le ragioni dell’inammissibilità attenevano a ritenuti difetti di motivazione circa le ragioni di contrasto tra le norme censurate ed una parte dei diciassette parametri costituzionali invocati dal rimettente. Si tratta anzitutto dell’art. 117, primo comma, della Costituzione: secondo la Corte, il Giudice di Taranto non ha illustrato, oltre l’enunciato formale, i profili di incompatibilità individuati rispetto all’art. 6 dellaConvenzione edu, agli artt. 3 e 35 della Carta di Nizza, all’art. 191 del TFUE, relativamente al principio di precauzione da osservare in materia ambientale. Inoltre la Corte ha considerato insufficienti le argomentazioni relative alle pretese violazioni del principio del giudice naturale (art. 25, primo comma, Cost.) e del principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.).
Infondate, invece, tutte le altre questioni.
Per un primo verso, la Corte ha negato il fondamento della tesi di fondo prospettata dal rimettente, e cioè che il decreto-legge n. 207 abbia eliminato la rilevanza penale delle condotte di gestione dello stabilimento cui si riferiscono le indagini preliminari tuttora in corso, o delle condotte attuali e future che si pongano in contrasto con le norme sanzionatorie vigenti. Certo – osserva la Corte – il riesame dell’Autorizzazione integrata ambientale rilasciata all’ ILVA il 26 ottobre 2012 modificava in fatto i presupposti di legittimazione dell’ulteriore attività produttiva. Cambierà quindi il parametro di riferimento per la verifica di compatibilità ambientale della produzione. Il che, nella visione della Corte, è quanto usualmente avviene quando le sanzioni accedono all’inosservanza delle prescrizioni contenute in un provvedimento amministrativo, e lo stesso sia variato nei contenuti.
A proposito dell’Autorizzazione accordata all’ILVA, cui si riferiva l’art. 3 del decreto-legge, la Corte ha negato sia stata oggetto di «legificazione», cioè sia stata trascinata dal rango di provvedimento amministrativo (come tale impugnabile, e sindacabile anche dal giudice ordinario) al rango di fonte normativa primaria. Dunque si tratta di un provvedimento riconducibile alla disciplina generale delineata nel Codice dell’ambiente, che può essere modificato dall’autorità competente ed in ipotesi anche revocato.
Per un secondo verso, la Corte ha negato sussista una illegittima compressione del diritto alla salute ed all’ambiente salubre. In premessa è stata disattesa l’idea, fatta propria dal rimettente, che esista una gerarchia tra i diritti fondamentali, i quali piuttosto vanno bilanciati, in sede politica, secondo un criterio di ragionevolezza, e senza che alcuno resti annichilito per la prevalenza di altri. A parere della Corte, il bilanciamento realizzato con il decreto «salva Ilva» è ragionevole, trattandosi di assicurare una tutela concomitante del diritto al lavoro ed all’iniziativa economica, e considerando che la nuova Autorizzazione integrata avrebbe recepito criteri di protezione ambientale assai stringenti, la cui osservanza è stata favorita da una implementazione del quadro sanzionatorio e degli strumenti di controllo (compresa la istituzione del Garante).
Infine, la Corte Costituzionale con la propria sentenza escluse la violazione della riserva di giurisdizione, avuto riguardo alla tesi di fondo del rimettente, secondo cui il decreto-legge sarebbe stato adottato per vanificare l’efficacia dei provvedimenti cautelari disposti dall’Autorità giudiziaria di Taranto. In sostanza, si è riconosciuta al legislatore la possibilità di modificare le norme cautelari, quanto agli effetti ed all’oggetto, anche se vi siano misure cautelari in corso secondo la previgente normativa. Nel contempo, si è attribuito alla legislazione ed alla conseguente attività amministrativa il compito di regolare le attività produttive pericolose, senza che le cautele processuali penali possano far luogo delle relative strategie.
Anche le questioni sollevate dal Tribunale del riesame di Taranto sono state giudicate infondate. Il Tribunale aveva concentrato le proprie censure sulla modificazione introdotta nell’art. 3 del decreto-legge in sede di conversione: il Giudice per le indagini preliminari, subito dopo il provvedimento governativo, aveva rifiutato il dissequestro di merci prodotte dopo il sequestro degli impianti e prima dell’entrata in vigore del decreto-legge, solo per effetto del quale l’ ILVA doveva considerarsi reimmessa nel possesso degli impianti; il Parlamento, su richiesta del Governo, aveva allora aggiunto, nella norma censurata, la specificazione che l’ILVA doveva recuperare la disponibilità dei prodotti in sequestro, anche se realizzati prima del decreto-legge. Secondo il Tribunale, una norma provvedimento, adottata invadendo le prerogative della giurisdizione e realizzando un cattivo bilanciamento tra gli interessi costituzionali concorrenti.
La Corte ha ritenuto che la norma concernente l’ILVA costituisca una specificazione della norma generale che prevede la restituzione alle imprese della disponibilità di beni aziendali sequestrati quando viene rilasciata un’Autorizzazione riesaminata, ed interviene la qualificazione di “stabilimento di interesse strategico nazionale“. Dunque una norma modificatrice della disciplina del sequestro di cose destinate alla produzione di beni di grande rilevanza, a carattere generale, e destinata ad incidere sul futuro regime della cautela reale adottata sulle merci in sequestro.
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Certo è che a questo punto, se la Corte Costituzionale dovesse smentire anche questa volta il Gip di Taranto, che non condivide l’ultimo decreto legge che ha salvato l’ ILVA in amministrazione straordinaria dalla discutibile decisione della magistratura tarantina di chiuderla, e di pensare di denunciare gli operai che lavoravano all’ AFO2., a questo punto, se il Gip Martino Rosati fosse coerente dovrebbe dimettersi ed abbandonare la magistratura. Anche perchè a Martina Franca l’inquinamento è di altro genere. Lì l’ ILVA per sua fortuna non arriva….