Il Partito Democratico alle prese con il lungo, tortuoso e sofferto cammino che dovrebbe condurlo verso una nuova leadership è una forza politica molto complicata in un mondo politico che s’è fatto quasi d’un tratto molto più semplice. E forse proprio questa sfasatura tra le proprie complicazioni e le altrui semplicità spiega una gran parte della sua attuale difficoltà.
Il punto è che nessuno dei dilemmi del Pd sembra poter approdare ad esiti meno contorti e faticosi di quelli che si intravedono in queste ore. Infatti c’è da scegliere un’identità nuova, tra tante e controverse identità più antiche che non sono affatto archiviate. C’è da scegliere un’alleanza, tra due tendenze agli antipodi, una che conduce verso il M5S e l’altra verso il terzo polo. E c’è da scegliere un leader nel bel mezzo di una giostra di candidati che ricorda il bailamme del palio di Siena un attimo prima che cada il canapo.
Sciogliere tutti questi nodi è già difficile in sé. Ma la difficoltà diventa improba quando capita di trovarsi all’indomani di una sconfitta così severa e dopo anni e anni nei quali -vincendo e più spesso perdendo- ci si è lungamente trovati nel confortevole ventre della balena di governo. Un’epopea di cui oggi tutti i leader del partito si mostrano contriti e pentiti ora che le redini di Palazzo Chigi sembrano saldamente nelle mani degli altri.
Non dovrebbe dunque stupire più di tanto la confusione che regna da quelle parti. Dovrebbe però essere capita meglio. Spiegata, decifrata, contestualizzata. Già, perché nulla è casuale in politica. E perché tutto quello che si trascura finisce poi per riaffacciarsi, se non proprio come il fantasma di Banquo, in modi comunque tutt’altro che confortevoli.
Il fatto è che la crisi del Pd non è di oggi ma risale indietro nel tempo. E’ la crisi di un partito che si è espanso in mille direzioni, coprendo via via un territorio sempre più esteso fino a perdere una chiara idea di sé. C’è il partito di governo e di lotta (prima di governo, certo), quello della storia e quello della cronaca, quello dei diritti sociali e quello dei diritti civili. Una forza interclassista come era stata la Dc, ma anche un partito ‘conservatore e rivoluzionario’ come si definiva il Pci di Berlinguer, e via sommando e moltiplicando ogni espressione di sé.
Le molte divisioni di oggi, dunque, non dovrebbero stupire. E neppure le differenze, pur qualche volta abissali, tra i potenziali segretari che si affacciano alla ribalta. Tra loro al momento risultano tra i più gettonati il presidente emiliano Bonaccini e la sua vice Schlein. Due figure agli antipodi. L’uno il prototipo del buon amministratore, solido e capace, eppure lontano dai voli della fantasia. L’altra dedicata piuttosto alla mediaticità, al nuovismo, alla rincorsa del futuro -e non priva di un certo gusto per lo scandalo. Due professionisti assai diversi e quasi opposti. L’uno, diciamo così, professionista dei ferri del mestiere. L’altra professionista dell’arte del dilettantismo. Intorno a loro pullulano le più diverse figure, ambizioni e suggestioni. Ognuna delle quali rivendica il proprio quarto d’ora di visibilità.
Si vedrà come andrà a finire il congresso. Resta il fatto che il dilemma sul prossimo segretario/a racchiude molti altri dilemmi che riguardano la fisionomia del partito. E un dilemma ulteriore che a sua volta riguarda i caratteri della contesa che si è aperta all’indomani delle elezioni dello scorso settembre. E cioè quale sia il modello di partito che riesce meglio a interpretare gli umori del paese.
Ha ancora senso un partito ad ampio spettro, pluralista al massimo grado, capace di ospitare al suo interno una così vasta quantità di opinioni e di biografie? Oppure ha più senso una forza identitaria, quasi ideologica, che tende ad affidarsi a una leadership risoluta, perfino perentoria, e a una disciplina fin troppo rigorosa?
Sarà su questo terreno che il prossimo Pd dovrà battersi con la Meloni e con il suo governo. E battersi però anche con se stesso.