di Marco Follini
C’è sempre qualcosa -un ricordo, un dettaglio, un’analogia- che di tanto in tanto ci riporta verso la prima repubblica. E cioè verso quel tempo non così lontano in cui i ruoli di governo e di opposizione erano ipotecati a priori, laddove un partito era sempre alla guida, l’altro egemonizzava la piazza e il processo di ricambio si rivelava assai difficoltoso. La democrazia bloccata, come si diceva allora.
Così, ai nostri giorni, la sproporzione di forza elettorale messa in evidenza dalle ultime elezioni amministrative ha dato l’idea che si potesse tornare lì, o quasi. Con una destra maggioritaria che fa l’asso pigliatutto, insediandosi perfino in quei territori dove non aveva mai cavato un ragno dal buco. E con una sinistra più debole e per giunta divisa che fatica a conservare anche i fortini della sua tradizione più antica e gloriosa.
Naturalmente questa rappresentazione delle cose andrebbe presa con beneficio d’inventario. Da allora, il mondo è cambiato, l’elettorato si muove più in fretta e gli stereotipi fanno presto a rovesciarsi nel loro opposto. Dunque, non è affatto detto che la maggioranza debba continuare a macinare consensi, e tantomeno che l’opposizione sia destinata a un infinito purgatorio politico. E può darsi che altri segni, altre prove, altri eventi concorrano invece a capovolgere la narrazione che in questi giorni va per la maggiore. Si vedrà.
Ma se invece le cose dovessero continuare ad andare in questa direzione, allora forse sarebbe il caso di cercare ispirazione in qualcuno di quegli insegnamenti che la prima repubblica ci ha lasciato in eredità. All’epoca, come si ricorderà, la maggioranza democristiana era ben consapevole del risvolto della sua stessa medaglia governativa. Dunque faceva del suo meglio per ammorbidire le cose, attutire qualche spigolo, mostrare un minimo di rispetto in più per quanti svernavano all’opposizione. E la robusta minoranza di sinistra a sua volta prendeva atto del blocco del sistema politico e si dedicava ad aggirarlo evitando di ricadere in quelle forme più estreme di radicalizzazione che avrebbero solo peggiorato le cose.
Il rimedio che Dc e Pci offrirono a se stessi e alla loro democrazia bloccata fu il consociativismo. E cioè una forma di collaborazione surrettizia, che consentì ai primi di addolcire l’opposizione altrui e ai secondi di condizionare almeno in parte l’agenda dell’altrui governo. Quella collaborazione sarebbe stata giudicata assai severamente negli anni seguenti, come è noto. Eppure in quel tratto di vita del paese si trovò anche il modo di dispiegare qualche effetto positivo. Se non altro evitando quegli eccessi polemici che già il clima di quegli anni incoraggiava nel nome della guerra fredda.
Ora tutto è cambiato, si dice. I partiti non sono più ideologici come un tempo. E del vecchio muro di Berlino non è rimasto neppure un calcinaccio -almeno dalle nostre parti-. E però la condizione politica del paese rischia sempre di scivolare verso direzioni troppo estreme. Dunque, sarebbe forse meglio correggere in tempo la tendenza verso una nuova edizione di una democrazia nuovamente in blocco. Cominciando a ragionare su come le nostre due metà potrebbero intrecciare quel minimo di dialogo che si conviene a una democrazia matura.
E’ assai probabile che alla parola “consociativismo” sia Meloni che Schlein siano portate a mettere mano (metaforicamente) alla pistola. La prima perché confida nel favore dei rapporti di forza attuali. La seconda perché confida che quei rapporti possano capovolgersi. E tutte e due perché sono devote alla dea dell’alternanza.
Già. Ma che si fa quando invece la dea dell’alternanza si distrae ? In quel caso torna ad avere un senso che le principali forze organizzino un dialogo e se del caso anche qualche forma di -legittimo- scambio alla luce del sole. Trovino cioè il modo di ampliare lo spettro della loro collaborazione. Senza confondersi, per carità. Ma imparando che almeno alcune cose vanno messe in comune. Non si tratta di fare “pasticci” e rendersi impropriamente complici gli uni degli altri. Semmai di cercare di migliorarsi a vicenda. Spingere la maggioranza a non chiudersi nel recinto della propria autosufficienza (e della propria arroganza, qualche volta). E spingere l’opposizione a non chiudersi nella ridotta della propria marginalità (e della estremizzazione di se stessa, qualche altra volta).
Se mai le due metà del campo politico si dedicassero a questa impresa scoprirebbero paradossalmente di essere state, tutte e due, più generose con se stesse che non indulgenti con i propri avversari.