di Giuliano Cazzola
Per riformare la giustizia in Italia non ci sarebbe molto da fare, anche se fino ad ora (?) è risultata una missione impossibile: riportare nell’alveo della Costituzione, Il settore deviato della magistratura delle procure ovvero della magistratura inquirente perché quella giudicante è certamente più equilibrata – anche se arriva con troppo ritardo – come si vede osservando le sentenze che demoliscono i teoremi delle procure. Ma questa “terzierietà” deve essere garantita dalla separazione delle carriere. “Solo l’ordine giudiziario e solo a mezzo di un processo può dichiarare un accusato colpevole. Questo principio – ha scritto Sabino Cassese – è stato travolto in Italia dall’affermazione di quello che può chiamarsi un vero e proprio quarto potere, le procure”.
Secondo il giurista, quindi, i pm non si limitano a costruire l’accusa, ma giudicano prima del processo. Vogliamo approfondire come avviene quest’ abuso di potere? Ce lo spiega Luciano Violante, una personalità al di sopra di ogni sospetto, in una intervista al Foglio sulla finzione dell’obbligatorietà dell’azione penale, che a suo avviso “offre ai magistrati la possibilità di concentrarsi su reati evanescenti per concentrarsi più sulle persone da indagare che sui reati da dimostrare”. “Si usa un’ipotesi di reato non ben limitata – ha proseguito l’ex presidente della Camera – si apre un’indagine sulla persona, si cerca tutto ciò che in una persona possa essere considerato rilevante dal punto di vista della morale oltre che del penale e si usa il circo mediatico per dare legittimità alla propria azione”. Non a caso le misure proposte da Carlo Nordio riguardano essenzialmente la condotta delle procure e tendono a colpire quegli abusi evidenti che esulano dall’esigenza di “fare giustizia”.
Nessun ufficio giudiziario ha mai indagato sul traffico di veline tra le procure e i cronisti giudiziari, perché è un passaggio fondamentale dello sputtanamento pre-giudiziale che è di per sé una condanna che dura per l’intero calvario dell’iter processuale. Basta leggere un ordine di custodia preventiva che di solito consiste nella descrizione di un teorema, di tanto in tanto corredata dalla citazione tra virgolette di una frase carpita da un’intercettazione telefonica, il cui contenuto diventa una prova di reato, a prescindere dal contesto in cui è stata detta.
C’è poi la vicenda del concorso esterno in associazione mafiosa, un reato che non si potrebbe abolire per legge perché nessuna legge lo ha mai previsto e che come ha scritto Filippo Sgubbi “l’imputato potrà apprendere solo dal dispositivo della sentenza – e quindi ex post – se la propria condotta rientra o meno in tale figura”, perché la giurisprudenza – che dovrebbe limitarsi a decidere sul caso concreto – è divenuta, impropriamente, non solo fonte del diritto, ma persino creatrice della norma, al posto e in sostituzione del potere legislativo. Eppure, appena Carlo Nordio ha sfiorato incautamente questa perversione giuridica si è assistito ad un fuggi fuggi disordinato e trasversale, perché tutti i partiti temono il potere delle procure, maligne e vendicative. Perché non si prova a seguire un’altra strada?
Piercamillo Davigo era solito invitare la politica a fare pulizia in casa propria prima dell’intervento della magistratura perché – sosteneva a ragione – i comportamenti illeciti che avvengono nel proprio ambiente sono noti. La stessa cosa potrebbe dirsi anche nel caso della magistratura inquirente. I magistrati sono dove esistono dei problemi, dove i loro colleghi costruiscono di proposito indagini che non hanno fondamento, dove arrestano una persona poi vanno alla ricerca di un reato da poter applicare. Era così difficile rendersi conto del fatto che la ‘‘ trattativa Stato Mafia’’ era una bufala, fondata su di un pregiudizio ideologico, per affermare il quale non c’è mai bisogno di prove? Siamo sempre lì, a quanto scriveva Pier Paolo Pasolini: “Io so, ma non ho le prove”.
Che ci siano collusioni tra pezzi di Stato e la malavita, che ci siano infiltrazioni mafiose negli appalti pubblici sono cose risapute, ma non possono essere date per certa in ogni caso. È stato Davigo a proclamare in tv la sua dottrina: “Un innocente è solo un colpevole che l’ha fatta franca”. E ancora: “Non è più semplice mandare un ufficiale di polizia giudiziaria sotto copertura a partecipare a una gara d’appalto e quando qualcuno la vincerà, dicendo “tu questa gara non la devi vincere” lo arresta così facciamo prima?”.
Se un sostituto procuratore perseguita un rivale in amore, commette un reato perseguibile d’ufficio. Che differenza c’è con una procura che usa i poteri illimitati di cui dispone per realizzare un disegno politico? Si dirà: come si può provare una siffatta linea di condotta? Ma quando la Suprema Corte di Cassazione, in via definitiva, fa a pezzi una sentenza di merito e stabilisce che i fatti addirittura non sussistevano, gli uffici che hanno indagato saranno pure responsabili di colpa grave se non persino di dolo?
Come in politica, anche nell’ordine giudiziario (divenuto illegittimamente un potere) le cose si sanno. La stessa magistratura potrebbe “fare pulizia’’ al proprio interno, se, in questi casi montati ad arte e sconfessati, la Cassazione trasmettesse gli atti alla Procura generale per l’avvio dell’azione disciplinare o per indagare su di un eventuale reato. Il “caso ENI” è un esempio di manipolazione delle prove su cui indaga la stessa magistratura. Ma è una eccezione che confermala regola dell’impunità.