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22 Luglio 2024 11:31
22 Luglio 2024 11:31

Riforme, Primo comandamento sia cambiare legge elettorale

"Il nostro impianto istituzionale, con tutti i suoi difetti, ha retto per anni e anni. Adattandosi alle maggioranze più diverse e perfino alle giravolte più disinvolte. Dunque, andrebbe ritoccato ma non stravolto"
di Marco Follini

C’è quasi sempre qualcosa di paradossale nel modo in cui si affronta il tema delle riforme istituzionali. E cioè la circostanza che i promotori di tali riforme sono apparsi fin dall’inizio o troppo forti o troppo deboli per accingersi all’opera con qualche probabilità di successo. Quando sono stati troppo forti, o almeno sono apparsi tali, hanno suscitato diffidenze diffuse. E quando invece sono stati troppo deboli, i loro progetti si sono arenati fin dall’inizio. Così, una lunga serie di tentativi sono finiti come sono finiti. O meglio, non sono quasi neppure cominciati. Dalle vecchie bicamerali fino ai giorni nostri.

E’ piuttosto improbabile che a Meloni le cose possano andar meglio. Un po’ perché il governo si trova alle prese con altre priorità, alcune drammatiche, e sembra difficile che possa investire tutte le sue risorse di consenso e di impegno su un percorso così accidentato. Un po’ perché incombe, anche in questo caso, lo spettro del referendum di renziana memoria. E un po’ perché quel percorso, per come viene prospettato, sembra disegnato sulla base di un equivoco.

Il fatto è che la proposta del premierato che viene messa in campo corregge e modifica i punti forti del nostro sistema istituzionale. E trascura invece i punti deboli. Cosa invero piuttosto paradossale, anche questa.

L’intento infatti è innanzitutto quello di rafforzare la figura del capo del governo. Il quale (o la quale, nel nostro caso) gode già a quanto pare di ottima salute istituzionale e dispone di poteri largamente sufficienti per realizzare per intero (risorse permettendo) il suo programma. Basti l’esempio, proprio in questi giorni, di una legge finanziaria che si appresta a venire approvata senza un solo emendamento, blindata com’è da una disciplina di maggioranza piuttosto ferrea.

L’altro punto su cui si interviene, sia pure con apparente delicatezza, è quello dei poteri del capo dello Stato. Che vengono ritoccati qua e là con il sottile intento di depotenziarlo pur senza metterlo alle corde. Così, egli non avrà più la possibilità di nominare i senatori a vita. E soprattutto non potrà mai più giostrare nelle situazioni di crisi guidando la politica verso l’esito di una sospensione delle sue ostilità e difficoltà. In altre parole, niente più governi Monti o Draghi, neppure se la maggioranza dovesse mai andare in pezzi.

Di conseguenza il nostro sistema parlamentare viene a perdere quei tratti di flessibilità che sono sempre stati la quintessenza della nostra politica. E deputati e senatori vengono sempre più relegati in una lontana retrovia presso la quale non si comprende bene il senso della loro esistenza in vita (politica).

Ed è proprio questo, a mio avviso, il punto più debole della costruzione che si sta cercando di mettere in piedi. Se intendiamo continuare ad essere una Repubblica parlamentare occorre infatti che i parlamentari abbiano un senso. E cioè prima di tutto che siano eletti e non cooptati al modo di adesso. E poi che tornino ad esercitare nelle aule quella funzione legislativa che sembra essere progressivamente venuta meno fin dagli albori della nostra seconda repubblica.

Sotto questo profilo cambiare la legge elettorale, dopo lo scempio prodotto da Calderoli in poi, dovrebbe essere il primo comandamento di tutta la nostra classe dirigente. La quale sembra invece starsene comodamente seduta -a destra, al centro e a sinistra- sulle propria momentanea convenienza. A tutte spese dal valore della rappresentanza democratica.

Naturalmente Meloni può obiettare che era suo dovere almeno tentare una sortita. Può magari lamentare che dall’opposizione si sia quasi subito alzato il muro delle rituali indisponibilità. E può perfino ricordare i mille tentativi andati a vuoto nelle scorse legislature. Come a dire che era perfino doveroso cercare di smuovere una carovana impastata da tempo, quali che fossero i conducenti dell’epoca.

Resta il fatto che il nostro impianto istituzionale, con tutti i suoi difetti, ha retto per anni e anni. Adattandosi alle maggioranze più diverse e perfino alle giravolte più disinvolte. Dunque, andrebbe ritoccato ma non stravolto. E proprio dai ‘conservatori’ ci si aspetterebbe che tra i valori da conservare vi fosse proprio quell’impianto. Vecchio eppure glorioso.

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