di Marco Follini
Si è cominciato con una candidatura mai avanzata alla presidenza della Commissione europea. Si è proseguito con l’irrisione, poi smentita, di quella foto scattata a suo tempo a bordo del treno per Kiev. Si insiste infine con un mormorio quirinalizio, ancorché largamente prima del tempo. In un modo o nell’altro il destino politico di Mario Draghi -quello passato e più ancora quello futuro- resta al centro delle nostre più maliziose fantasie politiche. E per quanto egli faccia del suo meglio per conservarsi defilato, quel suo destino continua ad animare gli scenari che la nostra immaginazione collettiva insiste a disegnare. Per quanto Draghi si chiami fuori, tutti noi lo richiamiamo dentro. Che sia per stima o per sospetto o magari per avversione.
Confesso da parte mia di essere vittima di un pregiudizio (ma soprattutto di un giudizio) assai favorevole. Apprezzo Draghi che considero un fuoriclasse. E apprezzo la politica, nonostante da qualche tempo non stia dando propriamente il meglio di sé. Apprezzando sia Draghi che la politica, mi verrebbe naturale mettere le due cose insieme. Peccato che insieme le due cose non stiano, quasi mai. Poiché il nostro ex premier è capace di molte cose, ma non di politica. La quale politica a sua volta trova spazio per tanti ma si ostina a negarlo al fuoriclasse di cui sopra. Insomma, questo conto non torna, come s’era già visto ai tempi della battaglia combattuta sulle pendici del Quirinale.
Eppure far tornare quel conto, in un modo o nell’altro, sarebbe nell’interesse del paese e del suo buon nome. Già, perché tenere in panchina uno degli uomini più capaci di cui disponiamo non è certo indice di saggezza. E mentre noi facciamo finta di non aver bisogno di risolvere il problema, all’estero si chiedono il perché di questo spreco. Così, la palla torna a noi. Che però mostriamo di giocarla in modi piuttosto improvvidi.
Verrebbe da chiedere a Draghi di occuparsi lui di sé stesso. E cercare un modo per rendersi utile al sistema paese senza farsi avanti con modi imperiosi che non gli sono propri ma anche evitando di restare defilato per non disturbare troppo un ceto politico che non ha mai mostrato troppa voglia di lasciargli spazio. Impresa che meriterebbe di essere tentata. Salvo il fatto che, come s’è già visto due anni fa, come patrocinatore di sé stesso Draghi non risulta davvero un buon avvocato.
Dunque diciamo che il problema torna a rimbalzare addosso agli inquilini del Palazzo. A cui si vorrebbe chiedere sommessamente di tracciare un percorso che renda la figura di Draghi più utile ai nostri destini. Lo si precetti, lo si scuota, lo si disturbi. Si faccia qualcosa per non lasciarlo in panchina. Non perché lui se lo aspetti. Direi semmai che il problema è l’opposto. Siamo noi, gli altri, che trarremmo vantaggio se l’ex premier venisse sottratto al suo basso profilo e impegnato a fare per davvero il “nonno” al servizio delle istituzioni come s’era raccontato -non senza una certa malizia- ai tempi della (mancata) scalata al Colle.
Ora, personalmente non saprei che traguardo indicare. E capisco che per ognuno di quegli incarichi di cui si parla ci può essere qualche fondata, fondatissima controindicazione. D’altra parte la classe dirigente non si forma quasi mai per una sorta di investitura altrui. Più spesso è il rovello dell’ambizione che spinge in avanti i talenti: quelli meritevoli e quelli meno. Resta il fatto che Draghi è un buon esempio di una meritocrazia che non funziona. Poiché egli indulge a presentare bei libri e magari anche a dare buoni consigli. Ma risulta assai meno impegnato di quanto sarebbe utile al suo paese (e forse anche alla sua persona). Tenerlo ai margini, facendolo oggetto di fantasie improbabili soddisfa -forse- il suo amor proprio di battitore libero. Ma resta infine lo specchio di un’occasione persa