Le fiamme gialle del Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Milano, affiancati dai finanzieri del Nucleo speciale tutela privacy e frodi di Roma, hanno notificato un provvedimento di sequestro per quasi 322 milioni di euro nel secondo filone dell’indagine milanese, aperta nel 2018, su una maxi truffa attraverso i servizi di telefonia che questa volta ruota attorno a TIM, azienda che non è indagata. Gli indagati sono oltre 20. Il decreto di sequestro, firmato dal gip su richiesta della procura ambrosiana, riguarda altre 5 società che con l’azienda di telecomunicazioni alla quale sono stati congelati quasi 250 milioni, avrebbero venduto cosiddetti “servizi vas”.
In questo secondo filone dell’indagine, coordinata dall’aggiunto Eugenio Fusco e dal pm Francesco Cajani , gli indagati, tra i quali alcuni all’epoca dei fatti dipendenti TIM ma senza ruoli di vertice o dirigenziale, rispondono di frode informatica (articolo 640 ter del codice penale). Il decreto di sequestro, disposto dal Gip Patrizia Nobile del Tribunale Penale di Milano, al netto dei circa 250 milioni di Tim, riguarda altri 70 milioni e oltre di euro suddivisi su cinque società con sedi tra Milano, Roma, Torino e Madrid, che avrebbero realizzato e lavorato per la vendita dei servizi aggiuntivi a pagamento (Vas) che non erano mai stati richiesti dai clienti della società telefonica.
La gip milanese Patrizia Nobile, già quattro anni fa aveva sequestrato 21 milioni a Wind3, ha disposto il sequestro in via preventiva alla compagnia telefonica TIM nel presupposto che anch’essa abbia truffato nel 2017-2019 agli ignari consumatori — benché a colpi di soli pochi centesimi al giorno — una montagna di soldi in servizi telefonici aggiuntivi (Vas) come giochini, suonerie, meteo, oroscopi, gossip: servizi commercializzati dalle aziende di contenuti (Csp), e poi attivati dall’operatore telefonico (in questo caso Tim) coadiuvato dalle società di piattaforme tecnologiche (Hub), con un sovrapprezzo sulla scheda Sim di utenti che però non li avevano mai richiesti, ma che venivano ingannati da fraudolenti banner pubblicitari o persino installati senza nemmeno bisogno di fare un clic sulla propria tastiera o touchscreen.
Per la Procura di Milano una “ulteriore conferma della consapevolezza di Tim“ e quindi responsabilità arriverebbe sia dalle dichiarazioni di un altro teste circa il fatto che le responsabilità dell’hub tecnologico Engineering nelle attivazioni illecite fossero “necessariamente e tecnicamente note all’operatore telefonico TIM fin dal 2017”; sia dalle “conversazioni del 17 settembre 2018” tra costui e il responsabile di una società di creazione di contenuti a proposito del blocco delle “attivazioni sporche” nel settembre 2018, durato quattro settimane. La loro successiva ripresa, “proprio perché preceduta dalla presa di consapevolezza da parte dei responsabili di TIM del sistema diffuso di attivazioni indebite di quei servizi, deve pertanto ritenersi frutto di una sua precisa scelta commerciale, anche perché, appena TIM aveva voluto, c’era stato il blocco delle attivazioni fraudolente, ma pure un azzeramento di attivazioni che evidentemente non conveniva neanche all’operatore telefonico“.
La prima tranche dell’inchiesta, avviata nel 2018 ed al centro di un processo che si sta celebrando da qualche mese dinnanzi al Tribunale di Milano, ruotava attorno a WindTre, società anch’essa mai indagata ma che adesso è citata come responsabile civile nel dibattimento in cui sono imputati alcuni dei suoi ex manager. Anche in questo caso la presunta truffa da circa 99 milioni aveva portato a rilevanti sequestri e, oltre al processo di primo grado (per l’imputazione di tentata estorsione contrattuale si deve ricelebrare l’udienza preliminare), a sette patteggiamenti e ad una restituzione di 18,5 milioni di euro.
La Procura di Milano aveva ipotizzato un sistema illecito che, tra il 2017 e il 2020, avrebbe consentito una “media di 30/40mila attivazioni indebite al giorno di servizi premium, cosiddetti Vas, ossia giochi, oroscopi, suonerie, per «ignari consumatori che si vedevano addebitare i relativi costi pari a 5 euro a settimana”.
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