di Marco Follini
Si ha quasi pudore a parlare un’altra volta del “centro“, delle sue virtù perdute, delle sue occasioni mancate, delle vane speranze di un suo ritorno in forze. L’argomento appare stantio e superato dagli eventi. E le cronache non proprio esaltanti delle vicissitudini del fu terzo polo sembrano suggellare una volta per tutte il definitivo tramonto di ogni illusione che sia stata coltivata da quelle parti o nelle sue vicinanze.
Del resto, è tutto il mondo che va così. Quasi ovunque la radicalizzazione degli estremi appare la nota dominante. Si pensi agli Stati Uniti, drammaticamente divisi in due e solcati dall’incomunicabilità tra Trump e Harris. O alla Francia dove Macron fa sempre più fatica a evitare che la sua successione finisca per giocarsi tra Le Pen e Melanchon, senza nulla in mezzo. O più in generale alla crescita in tutta Europa di suggestioni estremiste che rendono ancora più improbabile e quasi surreale ogni appello a quella che una volta si sarebbe detta la politica ‘moderata’. In questo contesto cercare la via di mezzo appare come un sicuro vaticinio di disfatta. E infatti solo in pochi ormai si cimentano in questo esercizio decisamente fuori moda.
Anche per questo appare ingeneroso il continuo dar la croce addosso a Calenda e a Renzi. I quali, per l’amor del cielo, di errori ne fatti tanti, e anche gravi. A cominciare da quella loro reciproca, vistosa, esagerata insofferenza. Ma non è detto che condottieri più pazienti e misurati avrebbero prodotto risultati più brillanti. Almeno, non in questo contesto.
Le intemperanze caratteriali, infatti, sono quasi sempre la conseguenza e non la causa delle difficoltà politiche. E del resto, la buona qualità degli ultimi capi democristiani, oggi riconosciuta perfino dagli avversari storici più tenaci, non impedì all’epoca la dissoluzione di quel partito. A conferma del fatto che le curve della storia non sempre seguono pedissequamente la traiettoria dei personalissimi meriti e difetti di coloro che cercano di interpretarle.
Semmai si dovrebbe dedicare una maggiore attenzione proprio ai saliscendi della storia. Perché è lì che si annida il destino altrimenti imperscrutabile dei centristi di nuova generazione. E’ la storia, infatti, che racchiude il vero enigma di cui stiamo parlando. Non tanto la storia del domani, troppo esposta ai desideri di ciascuno di noi. Ma semmai la storia di ieri e dell’altro ieri, messa a disposizione in ugual misura dei tifosi del centrismo e dei suoi detrattori.
Quella storia ci ricorda che la politica italiana è sempre stata centrista e anti-centrista a fasi alterne. Essa segnala periodi nei quali il sistema è stato largamente baricentrico (Cavour, Giolitti, la Dc) e periodi nei quali invece è stato caratterizzato dal prevalere, volta a volta, di alternative ben più estreme. A voler dare un colore a tutte queste fasi si potrebbe evocare da una parte il grigio delle mediazioni e dall’altra il rosso-e-nero dei conflitti più accesi. Un’altalena che dura dai tempi dell’unità italiana, che ha attraversato il secolo delle ideologie e che in qualche modo continua a imperversare anche in tempi di populismo post-politico.
Questi colori infatti si alternano da decenni in modi apparentemente capricciosi, eppure tutt’altro che inspiegabili. Quando uno dei colori ammaina le sue bandiere, l’altro prende il sopravvento. Così, quando il rosso e il nero, ora combattendosi e ora alternandosi, sprigionano le loro esagerazioni, il grigio torna ad essere un conforto. E quando invece il grigio appare come un colore quasi spento, il rosso e il nero fanno balenare suggestioni (che poi quasi sempre si rivelano assai deludenti e qualche volta anche tragiche).
S’intende che questo andirivieni di colori è sempre stato assai più serio e più complicato di così. Ma qui si voleva solo dare l’idea. E cioè ricordare che il centro potrà tornare a macinare consenso solo se riuscirà a rimettersi su di una lunghezza d’onda più ampia del suo orticello. Tanto più che gli orti degli altri non sembrano poi troppo floridi neppure loro”