di Marco Follini
L’outsider è quasi sempre il figlio di un notabile. Come tutti i figli, può essere ribelle, originale e anche assai diverso. Ma alle sue spalle il più delle volte si intravede un albero genealogico che lascia pochi margini all’improvvisazione.
Nell’ultimo libro Giuseppe De Rita ha spiegato con la sua consueta vena immaginifica quale debito abbia contratto l’Italia dell’immediato dopoguerra verso gli oligarchi che le hanno dato forma e sostanza. Non erano nobili pigri e goduriosi, di quelli che vivevano consumando nell’ozio la loro eredità. Erano semmai giovani professionisti aperti verso il mondo, di matrice cattolica e massonica, ben diversi per colori politici, uniti però da una comune visione circa il posto che sarebbe spettato al nostro Paese nell’ordine politico globale di quegli anni.
Negli anni seguenti i partiti furono affidati ad altri oligarchi, forgiati nella provincia che si andava affacciando sulle finestre del mondo e protesi a spingere il Paese verso il suo nuovo destino. Erano nella maggior parte dei casi figli di povera gente: contadini, maestri, ferrovieri, postini, artigiani. Ma erano, anche loro, a loro modo, un’oligarchia. Sentivano la responsabilità di guidare il processo politico verso gli esiti della sua faticosa modernità. E dunque si ponevano come classe dirigente anche quando erano cresciuti ai suoi margini.
Il populismo ha immaginato di spezzare questa catena. Ha preso a bersaglio le élites, soprattutto quelle politiche. E ha preteso di raderle al suolo, accomunando tutti i suoi esponenti sotto l’etichetta di una colpevolezza quasi ontologica. La virtù stava in basso, il vizio stava in alto. Tra l’alto e il basso poteva solo esserci la guerra, e dunque il vuoto. L’esito di questa guerra non è stato quello di cancellare le élites. Che per l’appunto non sono state distrutte, ma solo peggiorate. A conferma del fatto che un Paese dove si ragiona per schemi e per divisioni piuttosto che per intrecci e per complicazioni diventa assai facilmente un luogo dove sono molte più le cose che decadono che quelle che si affermano.
Vale a maggior ragione per l’outsider apparentemente estremo: l’underdog. Che può conservare qualche tratto della sua genuinità e della sua proclamata estraneità al passato altrui solo se riesce a munirsi a sua volta di una classe dirigente che non faccia dell’improvvisazione la propria bandiera. E cioè che riesca a dotarsi, anche lei, di quei tratti oligarchici che suonano tanto disdicevoli a parole quanto invece necessari una volta che ci si metta all’opera.
Ora, anch’io credo che noi prima o poi, e più prima che poi, dovremo ricostruire il tessuto di una classe dirigente che ci è venuta a mancare. Perché l’outsider genera una ovvia simpatia in quel suo proclamarsi estraneo all’establishment. Ma il giorno dopo inevitabilmente anche lui (o lei) dovrà fare i conti con la infinita complessità dei meccanismi che regolano la vita di un grande Paese. Dunque, potrà posare ad estraneo. Ma solo posare. Perché il suo comportamento dovrà invece inevitabilmente uniformarsi a quanto ci si aspetta da coloro ai quali affidiamo le redini di una comunità. Certo, la moda insiste pigramente a scommettere sulla suggestione degli outsider. E molti tra i notabili che li hanno preceduti hanno fatto del loro meglio per dare qualche ragione a quanti scommettevano contro di loro. Ma la fine di una élite democratica non può che preludere al formarsi di un’altra democratica élite che ne prende il posto. L’illusione che nel vuoto delle oligarchie si crei come per incantesimo una democrazia infinita rischia solo di produrre l’indomani una delusione ancora più infinita.