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31 Ottobre 2024 15:21

La premier Meloni considera virtuoso il conflitto

la democrazia, come ammoniva proprio De Gasperi, è un regime difficile, faticoso. Essa richiede che si eserciti la maggior forza «contro» se stessi, o almeno su se stessi; e non contro gli altri.
di Marco Follini

Ho troppa stima di Giovanni Orsina per non tentare di contraddire il suo ragionamento a proposito delle virtù di Giorgia Meloni e della sua capacità di riconciliare il nostro Paese con l’élite europea. Egli infatti continua a pensare che il populismo si debella evitando con cura di muovergli una guerra a tutto campo, e cercando semmai di metabolizzarlo assumendone alcune ragioni e svuotandone così le troppe insidie e suggestioni. La romanizzazione dei barbari, per l’appunto

Ora, lo stesso dilemma se lo dovette porre, una ottantina d’anni fa, Alcide De Gasperi. Il quale, come osserva giustamente Orsina, appoggiò la sua fatica sul vincolo europeo e atlantico, venendo a capo di molte resistenze, alcune delle quali annidate ben dentro il suo stesso partito. Le rovine in mezzo alle quali il primo leader democristiano si dovette muovere gli furono paradossalmente quasi d’aiuto. Poiché nella drammaticità di quei tempi nessuno poté tergiversare, e i nodi dell’epoca vennero sciolti con quel misto di pazienza e decisione che caratterizza la buona politica – quando c’è.

Naturalmente Orsina non intende paragonare Meloni a De Gasperi, ci mancherebbe. Ma ravvisa tra i due almeno una piccola, significativa somiglianza. E cioè il fatto di essersi trovati entrambi a cercare di placare i cattivi umori di una parte del Paese, e del loro stesso elettorato, facendo leva su quel vincolo esterno che l’una soffre ma in fondo in fondo sembra voler rispettare e che l’altro coltivò a suo tempo con infinita riconoscenza.

Ora, la mia obiezione a Orsina sta nel fatto che De Gasperi poté imporre il vincolo europeo e atlantico e poté vincere la sfida ideologica perché ebbe la fortuna e soprattutto la virtù di poggiare il suo disegno su di una solida base costituzionale, mai messa in forse. E se pure Togliatti raccontò di aver comprato gli scarponi chiodati per prendere a calci il suo avversario, De Gasperi lo costrinse poi a non indossarli evitando di dotarsene anche lui.

Al contrario Meloni sembra considerare virtuoso il conflitto con gli avversari e disdicevole ogni compromesso che si possa stipulare con loro. Quasi a rovesciare il detto di von Clausevitz: sarebbe la politica, questa volta, ad essere intesa come continuazione della guerra con altri mezzi. Ma è proprio qui, in questo punto fragile e delicato, che a mio giudizio si smaglia il tessuto della premier. E cioè nel fatto che, senza una qualche forma di complicità tra maggioranza e opposizione, ogni riduzione del contagio populista (e antieuropeista) risulterà infine effimera.

Sento già l’obiezione: se ci si inoltra sul terreno del consociativismo i populisti di ogni colore potranno banchettare e accrescere a dismisura i loro consensi, forti dell’ostracismo altrui. Il punto è che questa obiezione sembra dare per scontato che la politica del nostro Paese abbia sempre bisogno di conflitti finti per produrre intese più vere. E che senza quei conflitti ogni intesa presti il fianco a mille sospetti. Facendoci tornare così alla radice dei nostri problemi politici e istituzionali.

Il fatto è che la democrazia, come ammoniva proprio De Gasperi, è un regime difficile, faticoso. Essa richiede che si eserciti la maggior forza «contro» se stessi, o almeno su se stessi; e non contro gli altri. Richiede in altre parole di porre sempre un argine alla propria parzialità, di disciplinare le proprie legittime passioni, di contenere la propria stessa tifoseria, concedendo uno spazio non solo retorico a chi la pensa diversamente. Ha bisogno insomma di una qualche complicità tra i diversi e non solo dell’affettuoso conforto dei propri cari.

Orsina magari mi obietterà che per l’appunto Meloni concede allo stato d’animo populista quel tanto di corda che alla fine servirà per avvolgerlo, legarlo e impedirgli di andare troppo oltre. Io continuo invece a pensare che ogni concessione verbale o emotiva verso quel modo di pensare sortisca piuttosto l’effetto di rafforzare le sue ragioni e la sua minaccia. E che a furia di cercare vanamente di romanizzare i barbari rischiamo di non sapere più qual è il senso della nostra antica, e comune, civiltà

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