a cura dello Studio Legale Campanelli
La Consulta boccia il limite dei tre anni previsto come “ragionevole” dalla legge 89/2001 per la durata dei procedimenti di “equa riparazione” in primo grado. Salva invece quello di un anno per il giudizio in Cassazione. In particolare, osserva la Corte il Legislatore non può prevedere per un provvedimento di riparazione “una durata complessiva pari a quella tollerata con riguardo agli altri procedimenti civili di cognizione, anziché modellarla sul calcolo dei più brevi termini indicati dalla stessa” .
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
– Alessandro CRISCUOLO Presidente
– Giuseppe FRIGO Giudice
– Paolo ROSSI ”
– Giorgio LATTANZI ”
– Aldo CAROSI ”
– Marta CARTABIA ”
– Mario Rosario MORELLI ”
– Giancarlo CORAGGIO ”
– Giuliano AMATO ”
– Silvana SCIARRA ”
– Daria de PRETIS ”
– Nicolò ZANON ”
– Franco MODUGNO ”
– Augusto Antonio BARBERA ”
– Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente Sentenza n. 36 dep. il 19 febbraio 2016
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), come aggiunti dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, promossi dalla Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con ordinanze del 14 ottobre 2013, del 27 febbraio, del 13 maggio (due ordinanze), del 17 aprile e del 3 marzo 2014, rispettivamente iscritte al n. 181 del registro ordinanze 2014 ed ai nn. 8, 9, 10, 11 e 12 del registro ordinanze 2015 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2014 e n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visti gli atti di costituzione di Basile Anna Maria, di Bellucci Marcello, di Salsano Pietro, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 12 gennaio 2016 e nella camera di consiglio del 13 gennaio 2016 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;
uditi gli avvocati Ferdinando Emilio Abbate per Basile Anna Maria e Salsano Pietro, e l’avvocato dello Stato Tito Varrone per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 14 ottobre 2013 (r.o. n. 181 del 2014), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), come aggiunti dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
Il rimettente premette di dover decidere il ricorso con cui la parte ha proposto opposizione contro un decreto che, in accoglimento della domanda di equa riparazione ai sensi dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, ha stimato in un anno e dieci mesi il tempo che ha ecceduto la ragionevole durata del processo.
Si è trattato, in particolare, di un procedimento avviato proprio sulla base della legge n. 89 del 2001, a causa della eccessiva durata di un altro giudizio. Il procedimento finalizzato al ristoro del pregiudizio subito, a sua volta, ha avuto una durata complessiva di sette anni e dieci mesi e si è svolto in due gradi.
Il giudice a quo osserva che la durata del periodo oggetto di ristoro è stata determinata in applicazione dell’art. 2, comma 2-ter, introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 83 del 2012.
Tale disposizione stabilisce che «Si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni».
Ne consegue che, sottratti i sei anni dalla durata complessiva del primo procedimento avviato in forza della legge n. 89 del 2001, residua il solo periodo già indicato di un anno e dieci mesi.
Il rimettente, dopo avere motivatamente respinto le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato, osserva che la giurisprudenza di legittimità formatasi anteriormente alla novella del 2012 e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo avevano indicato in due anni il limite di ragionevole durata complessiva del procedimento previsto dalla legge n. 89 del 2001.
Analoga conclusione si imporrebbe oggi, in base al dettato costituzionale, tenuto conto che il procedimento ha carattere semplificato, si svolge in un unico grado di merito, accerta fatti di immediata evidenza e persegue finalità acceleratorie.
Il legislatore, prescrivendo anche per tale procedimento un termine di durata ragionevole pari a sei anni, avrebbe violato gli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU.
Né il giudice potrebbe interpretare l’art. 2, comma 2-ter, in senso conforme alla Costituzione, perché esso si applica «ad ogni procedimento civile per cui non sia disposto diversamente, e non solo al giudizio ordinario di cognizione; tanto è vero che, per alcune procedure speciali, come quella esecutiva, e quella concorsuale, la legge ha previsto termini diversi e specifici».
La Corte rimettente censura, sulla base dei medesimi parametri e per analoghe ragioni, anche l’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni e quella del giudizio di legittimità in un anno.
Il giudice a quo afferma che, una volta dichiarata l’illegittimità costituzionale del termine complessivo di sei anni, dovrebbe trovare applicazione questa norma, parimenti sospetta di illegittimità costituzionale, e precisa che, nel caso di specie, il giudizio, sommando le fasi di merito e di legittimità, avrebbe dovuto avere la durata di quattro anni.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili.
Con riferimento all’art. 2, comma 2-ter, l’Avvocatura eccepisce che il giudice a quo avrebbe potuto adottare un’interpretazione costituzionalmente orientata, in base alla quale ritenere che il limite di sei anni di durata complessiva del procedimento non sia vincolante, quando quest’ultimo ha carattere semplificato.
Inoltre la questione sarebbe inammissibile perché non potrebbe dar luogo a un intervento di questa Corte a “rime obbligate”.
3.– Si è costituita nel processo incidentale la parte del giudizio principale, la quale rileva, anzitutto, che l’art. 2, comma 2-ter, sarebbe applicabile solo ai procedimenti svoltisi in tre gradi di giudizio, in quanto la disposizione andrebbe letta in collegamento con l’art. 2, comma 2-bis, che stabilisce i termini di ragionevole durata del processo con riguardo al primo, al secondo e al terzo grado di giudizio.
Ne seguirebbe che il rito previsto dalla legge n. 89 del 2001, strutturato in due soli gradi, si sottrarrebbe alla previsione impugnata e continuerebbe ad essere soggetto al limite di durata di due anni, enunciato dalla Corte EDU.
Se tale interpretazione non fosse condivisa, la Corte dovrebbe accogliere la questione di legittimità costituzionale.
4.– Con ordinanza del 27 febbraio 2014 (r.o. n. 8 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.
Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001 e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, due anni e sette mesi.
Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni e quella del giudizio di legittimità in un anno.
5.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate.
Dopo avere ribadito le eccezioni di inammissibilità svolte nel precedente giudizio con riguardo alla questione vertente sull’art. 2, comma 2-ter, la difesa dello Stato rileva che è sopraggiunta la sentenza della Corte di cassazione, sesta sezione civile, 6 novembre 2014, n. 23745, con la quale è stato statuito che il termine di sei anni ivi previsto si applica ai soli processi strutturati su tre gradi di giudizio. Il procedimento previsto dalla legge n. 89 del 2001 non sarebbe perciò disciplinato da tale disposizione e spetterebbe al giudice decidere quale ne sia la ragionevole durata.
Per tali ragioni, la questione sarebbe non fondata.
6.– Con ordinanza del 13 maggio 2014 (r.o. n. 9 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.
Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001, e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, cinque anni e dieci mesi.
Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni.
7.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate, con argomenti analoghi a quelli sviluppati nei precedenti giudizi.
8.– Con ordinanza del 13 maggio 2014 (r.o. n. 10 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.
Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001, e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, due anni, nove mesi e sedici giorni. Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni.
9.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate, con argomenti del tutto analoghi a quelli sviluppati nei precedenti giudizi.
10.– Si è costituita nel processo incidentale la parte del giudizio principale, che chiede l’accoglimento delle questioni, sviluppando argomenti analoghi a quelli proposti dal giudice a quo. La parte aggiunge che la dichiarazione di illegittimità costituzionale sarebbe a “rime obbligate”, poiché la giurisprudenza della Corte EDU ha fissato in due anni il termine di ragionevole durata complessiva della procedura prevista dalla legge n. 89 del 2001, escludendo la compatibilità con la CEDU di un termine più lungo, in ragione della semplicità dell’accertamento e delle finalità cui esso risponde.
11.– Con ordinanza del 17 aprile 2014 (r.o. n. 11 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2 -ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.
Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001, e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, quattro anni, otto mesi e quindici giorni. Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni e quella del giudizio di legittimità in un anno.
12.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate, con argomenti analoghi a quelli enunciati nei precedenti giudizi.
13.– Con ordinanza del 3 marzo 2014 (r.o. n. 12 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.
Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001, e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, due anni e otto mesi.
Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni e quella del giudizio di legittimità in un anno.
14.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate, con argomenti analoghi a quelli sviluppati nei precedenti giudizi.
15.– Si è costituita nel processo incidentale la parte del giudizio principale, svolgendo considerazioni analoghe a quelle formulate dalla parte privata nel giudizio iscritto al n. 181 del registro ordinanze 2014.
16.– Con due memorie di analogo tenore, le parti private dei giudizi iscritti al n. 181 del registro ordinanze 2014 e al n. 12 del registro ordinanze 2015 hanno evidenziato che il più recente indirizzo della Corte di cassazione esclude l’applicabilità dell’art. 2, comma 2-ter, ai procedimenti che non sono strutturati in tre gradi di giudizio, e in particolare a quelli disciplinati dalla legge n. 89 del 2001.
Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con sei ordinanze di analogo tenore (r.o. n. 181 del 2014 e nn. 8, 9, 10, 11 e 12 del 2015), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), come aggiunti dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
L’art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001 assicura un’equa riparazione a chi abbia subito un danno conseguente all’irragionevole durata di un processo.
Le disposizioni oggetto di censura sono state introdotte dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 83 del 2012, al fine di adottare una disciplina legale dei termini entro cui il giudizio deve reputarsi rispettoso del principio della ragionevole durata del processo, enunciato dall’art. 111, secondo comma, Cost. e dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU.
L’art. 2, comma 2-bis, stabilisce, a tale proposito, che il termine è considerato ragionevole se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, due in secondo grado e un anno nel giudizio di legittimità.
L’art. 2, comma 2-ter, aggiunge che «Si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni».
I rimettenti sono chiamati a pronunciarsi su domande di condanna all’equa riparazione, conseguenti all’eccessiva protrazione di procedimenti regolati a loro volta dalla legge n. 89 del 2001, e sostengono di dover applicare le norme impugnate.
Per tale peculiare ipotesi, i giudici a quibus ritengono che entrambi i termini indicati dalle disposizioni censurate siano incompatibili con quanto previsto, sulla base dell’art. 6 della CEDU, dalla Corte europea del diritti dell’uomo e dalla stessa giurisprudenza di legittimità consolidatasi prima della novella recata dal d.l. n. 83 del 2012, anche in forza dell’art. 111, secondo comma, Cost.
La Corte europea avrebbe infatti reiteratamente affermato che grava un peculiare onere di diligenza sullo Stato già inadempiente all’obbligo di assicurare la ragionevole durata di un processo. Per questa ragione, il diritto all’equa riparazione dovuta a causa dell’eccessiva protrazione di un procedimento disciplinato dalla legge n. 89 del 2001 andrebbe soddisfatto con particolare celerità, mentre non sarebbero a tal fine adeguati i termini previsti in via generale, con riferimento alla durata dell’ordinario processo di cognizione.
In applicazione di questi principi, la giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto congruo il termine di durata di un anno, per l’unico grado di merito del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001, e quello di un ulteriore anno, relativamente al giudizio di legittimità previsto da tale legge, per complessivi due anni (da ultimo, Corte di cassazione, sezioni unite civili, 19 marzo 2014, n. 6312).
I rimettenti, reputando tali termini conformi all’art. 111, secondo comma, Cost. e all’art. 6 della CEDU, denunciano le disposizioni censurate, anche con riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., «nella parte in cui si applicano anche ai procedimenti di equa riparazione» previsti dalla legge n. 89 del 2001.
2.– I giudizi vertono sulle medesime disposizioni e pongono analoghe questioni, sicché ne appare opportuna la riunione, ai fini di una decisione congiunta.
3.– L’art. 2, comma 2-bis, viene impugnato da alcuni rimettenti (r.o. n. 181 del 2014 e nn. 8, 11 e 12 del 2015), sia nella parte in cui indica la «ragionevole» durata del procedimento di primo grado, sia in quella relativa al giudizio di legittimità. Tuttavia, solo nel caso dell’ordinanza di rimessione iscritta al n. 181 del registro ordinanze 2014 il rimettente dà conto dello svolgimento del giudizio di cassazione, nell’ambito del procedimento regolato dalla cosiddetta legge Pinto, per il quale è chiesta l’equa riparazione, mentre dalle ordinanze iscritte ai nn. 8, 11 e 12 del registro ordinanze 2015 risulta che tale ricorso non ha avuto luogo.
Ne consegue, solo per queste ultime, l’inammissibilità per difetto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte relativa al termine di ragionevole durata del giudizio di legittimità.
4.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, perché i giudici a quibus avrebbero omesso di adottare un’interpretazione costituzionalmente conforme delle disposizioni impugnate. Queste ultime, in tale prospettiva, si limiterebbero ad introdurre un «parametro cui il giudice deve attenersi senza esserne vincolato in termini assoluti», potendone invece prescindere alla luce della natura del procedimento.
L’eccezione è manifestamente infondata.
L’obbligo di addivenire ad un’interpretazione conforme alla Costituzione cede il passo all’incidente di legittimità costituzionale ogni qual volta essa sia incompatibile con il disposto letterale della disposizione e si riveli del tutto eccentrica e bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove la disposizione si colloca (sentenze n. 1 del 2013 e n. 219 del 2008). L’interpretazione secondo Costituzione è doverosa ed ha un’indubbia priorità su ogni altra (sentenza n. 49 del 2015), ma appartiene pur sempre alla famiglia delle tecniche esegetiche, poste a disposizione del giudice nell’esercizio della funzione giurisdizionale, che hanno carattere dichiarativo. Ove, perciò, sulla base di tali tecniche, non sia possibile trarre dalla disposizione alcuna norma conforme alla Costituzione, il giudice è tenuto ad investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale.
I commi 2-bis e 2-ter dell’art. 2, nell’affermare che il termine ivi indicato «Si considera rispettato», sono univoci e non possono che essere intesi nel senso che tale termine va ritenuto ragionevole. Ciò appare tanto più vero, se si tiene a mente che questa affermazione è stata fatta nell’ambito di un intervento normativo segnato dall’intento del legislatore di sottrarre alla discrezionalità giudiziaria la determinazione della congruità del termine, per affidarla invece ad una previsione legale di carattere generale.
Si può aggiungere fin d’ora che, in tal modo, e in coerenza con quest’ultima finalità, è stato regolato l’insieme dei processi civili di cognizione, e dunque anche il procedimento previsto dalla legge n. 89 del 2001, cui la giurisprudenza di legittimità ha costantemente attribuito tale natura. Difatti, lo stesso art. 2, comma 2-bis, di tale legge reca previsioni speciali esclusivamente per il procedimento di esecuzione forzata e per le procedure concorsuali.
5.– L’Avvocatura generale dello Stato ha, altresì, eccepito l’inammissibilità delle questioni perché ad esse non corrisponderebbe una soluzione costituzionalmente obbligata, spettando al legislatore individuare il termine congruo di durata del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001, una volta dichiarati illegittimi i termini ora previsti dalle disposizioni censurate.
L’eccezione è infondata.
I rimettenti, sulla scia della consolidata giurisprudenza europea, si limitano a denunciare l’illegittimità costituzionale della scelta del legislatore di equiparare la ragionevole durata complessiva dei procedimenti regolati dalla legge n. 89 del 2001 a quella di ogni altro procedimento civile di cognizione, quando, invece, gli artt. 3 e 111 Cost. e l’art. 6 della CEDU imporrebbero che essa sia più contenuta. In tale prospettiva, i giudici a quibus non sono certamente tenuti ad indicare quali termini siano adeguati al caso di specie, né l’eventuale discrezionalità del legislatore nel rimodularli può essere d’ostacolo alla rimozione di norme che, in ipotesi, determinano un vulnus alla Costituzione.
Peraltro, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella della Corte di cassazione antecedente alla novella introdotta dal d.l. n. 83 del 2012 ben possono soccorrere l’interprete nella immediata individuazione del termine di durata ragionevole, ove l’intervento del legislatore ritardi o manchi del tutto.
6.– L’Avvocatura ha poi osservato che l’art. 2, comma 2-ter, non sarebbe applicabile ai procedimenti previsti dalla legge n. 89 del 2001, perché essi sono articolati su due gradi di giudizio, mentre il termine di sei anni previsto da tale norma, e che si considera «comunque» ragionevole, esigerebbe che il processo si sia svolto in tre gradi.
In effetti, appare chiaro il collegamento tra l’art. 2, comma 2-bis, ed il successivo comma 2-ter. La prima disposizione contiene la ragionevole durata del processo entro tre anni per il primo grado, due per il secondo e uno per il giudizio di legittimità, per un totale di sei anni. La seconda norma, riferendosi proprio a quest’ultimo arco temporale, permette di compensare le violazioni determinatesi in una fase con l’eventuale recupero goduto in un’altra, a condizione che non si superi il limite complessivo di sei anni. L’art. 2, comma 2-ter, pertanto, benché sia in linea astratta riferibile a qualunque procedimento civile di cognizione, non potrà in concreto trovare applicazione nel procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001, che non è strutturato in tre gradi di giudizio. In questa direzione si è infatti pronunciata la Corte di cassazione (a partire dalla sentenza della sesta sezione civile, 6 novembre 2014, n. 23745).
Ne consegue che le questioni relative all’art. 2, comma 2-ter, sono inammissibili per difetto di rilevanza, posto che i rimettenti non sono chiamati ad applicare tale disposizione.
7.– Sono invece ammissibili le questioni relative all’art. 2, comma 2-bis, nei limiti di quanto già precisato al punto 3. del Considerato in diritto, poiché i giudici a quibus che hanno compiutamente descritto la fattispecie sono tenuti all’applicazione della norma, sia nel caso in cui il limite ivi indicato non sia stato superato (ciò che li obbligherebbe a rigettare la domanda di equa riparazione), sia per l’ipotesi contraria, ai fini della quantificazione dell’indennizzo previsto dall’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001.
8.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte in cui determina in tre anni la ragionevole durata del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 nel primo e unico grado di merito, è fondata, in riferimento all’art. 111, secondo comma, e all’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU.
Dalla giurisprudenza europea consolidata si evince (sentenza n. 49 del 2015) il principio di diritto, secondo cui lo Stato è tenuto a concludere il procedimento volto all’equa riparazione del danno da ritardo maturato in altro processo in termini più celeri di quelli consentiti nelle procedure ordinarie, che nella maggior parte dei casi sono più complesse, e che, comunque, non sono costruite per rimediare ad una precedente inerzia nell’amministrazione della giustizia (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 6 marzo 2012, Gagliano Giorgi contro Italia; sentenza 27 settembre 2011, CE.DI.SA Fortore snc Diagnostica Medica Chirurgica contro Italia; sentenza 21 dicembre 2010, Belperio e Ciarmoli contro Italia).
Ne consegue che l’art. 6 della CEDU, il cui significato si forma attraverso il reiterato ed uniforme esercizio della giurisprudenza europea sui casi di specie (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007), preclude al legislatore nazionale, che abbia deciso di disciplinare legalmente i termini di ragionevole durata dei processi ai fini dell’equa riparazione, di consentire una durata complessiva del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 pari a quella tollerata con riguardo agli altri procedimenti civili di cognizione, anziché modellarla sul calco dei più brevi termini indicati dalla stessa Corte di Strasburgo e recepiti dalla giurisprudenza nazionale.
Quest’ultima, in applicazione degli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., alla luce dell’interpretazione data dal giudice europeo all’art. 6 della CEDU, aveva in precedenza determinato il termine ragionevole di cui si discute, per il caso di procedimento svoltosi in entrambi i gradi previsti, in due anni, che è il limite di regola ammesso dalla Corte EDU.
Inoltre, questa Corte ha recentemente precisato che la discrezionalità del legislatore nella costruzione del rimedio giudiziale in questione, e in particolar modo nella specificazione dei criteri di quantificazione della somma dovuta, non si presta «in linea astratta ad incidere sull’an stesso del diritto, anziché sul quantum» (sentenza n. 184 del 2015), come invece accadrebbe se, per effetto della norma censurata, dovesse venire integralmente rigettata la domanda di equa riparazione.
Ne consegue che la disposizione impugnata, imponendo di considerare ragionevole la durata del procedimento di primo grado regolato dalla legge n. 89 del 2001, quando la stessa non eccede i tre anni, viola gli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., posto che questo solo termine comporta che la durata complessiva del giudizio possa essere superiore al limite biennale adottato dalla Corte europea (e dalla giurisprudenza nazionale sulla base di quest’ultima) per un procedimento regolato da tale legge, che si svolga invece in due gradi.
L’art. 2, comma 2-bis, va perciò dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui si applica alla durata del processo di primo grado previsto dalla legge n. 89 del 2001.
Resta assorbita la censura relativa all’art. 3, primo comma, Cost.
9.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte in cui determina in un anno la ragionevole durata del giudizio di legittimità previsto dalla legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, non è fondata.
Il termine annuale scelto dal legislatore è conforme alle indicazioni di massima provenienti dalla Corte europea e recepite dalla giurisprudenza nazionale. Inoltre, la dichiarazione di illegittimità costituzionale della previsione concernente la durata del processo di primo grado fa sì che la ragionevole durata complessiva di un procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001, in concreto articolatosi su due gradi di giudizio, sia inferiore a quella stabilita per gli altri procedimenti ordinari di cognizione, e comunque possa essere contenuta nel tetto di due anni, in conformità agli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.
Una volta accertata tale conformità, va considerato, per quanto concerne l’art. 3, primo comma, Cost., che rientra nel margine di apprezzamento discrezionale del legislatore equiparare la durata del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 nel giudizio di impugnazione a quella considerata ragionevole in via generale per i giudizi davanti alla Corte di cassazione, anche alla luce delle peculiarità proprie del giudizio di legittimità.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), nella parte in cui si applica alla durata del processo di primo grado previsto dalla legge n. 89 del 2001;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui si applica alla durata del giudizio di legittimità previsto dalla legge n. 89 del 2001, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., dalla Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con le ordinanze iscritte ai nn. 8, 11 e 12 del registro ordinanze 2015;
3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-ter, della legge n. 89 del 2001, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., dalla Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con le ordinanze indicate in epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui si applica alla durata del giudizio di legittimità previsto dalla legge n. 89 del 2001, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., dalla Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con l’ordinanza iscritta al n. 181 del registro ordinanze 2014.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2016.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 19 febbraio 2016