Era il 2 settembre del 2014 quando Antonio Gozzi presidente della Federacciai (associazione aderente a Confindustria) invitato ad un dibattito alla Festa dell’Unità di Genova, disse: ‘Fino al 2012, gli italiani in grado di gestire l’ILVA c’erano, ed erano i Riva. In 16 anni non hanno mai chiesto soldi allo Stato e hanno sempre dato reddito ai lavoratori‘”. Per Gozzi dunque non era importante che a causa dei veleni dell’ Ilva le indagini epidemiologiche hanno stabilito che i bambini di Taranto muoiono il 21% in più e si ammalano di tumore per il 54% in più rispetto alla media pugliese. Sempre Gozzi l’anno successivo intervistato dal programma radiofonico “Fabbrica 2.4″ condotto da Filippo Astone su Radio 24 ( di proprietà di Confindustria n.d.r.) sosteneva che “L’incriminazione dei commissari dell’ ILVA, Enrico Bondi e Piero Gnudi e’ spiegabile con l’accanimento della magistratura nei confronti dell’ILVA e con un rigore eccessivo rispetto alla realta’ delle cose“. Per Gozzi, lo scopo finale della magistratura sarebbe di chiudere l’ILVA, provocando danni importanti all’industria italiana e all’occupazione in Puglia. “Da parte di settori dell’opinione pubblica, e anche da parte di qualche sostituto procuratore o giudice delle indagini preliminari, si pensa che nel rapporto costi/benefici della situazione tarantina sarebbe meglio che l’ILVA fosse chiusa. In molti casi – ha proseguito Cozzi – la magistratura ha avuto un ruolo esorbitante“
Gozzi ha sempre preso le difese della famiglia Riva definendoli durante l’intervista sia “eroi“, sia “agnelli sacrificali”. Per Gozzi, che non ritiene che le morti a Taranto siano ascrivibili all’ILVA, i Riva sono “bravi imprenditori per quello che hanno fatto in 50 anni di storia, gestendo molto bene le loro aziende“. Per Antonio Gozzi, il presidente e proprietario dell’Entella calcio, un industriale che ha fatto fortuna nella “bassa” bresciana, la statalizzazione dell’ILVA sino a poco tempo fa era una buona idea, in tempi di privatizzazioni forzate. Quindi in controtendenza rispetto alle scelte governative dalla fine degli anni novanta in poi, una scelta marcatamente di sinistra. Gozzi spiega: “In una situazione così grave e straordinaria come quella dell’ ILVA non mi scandalizza che il presidente del Consiglio abbia pensato a un intervento dello Stato come a una delle possibili opzioni“. Gozzi continuava: “Il problema è che pragmaticamente bisogna affrontare il tema di una grande fabbrica che fino a quando ha avuto una gestione privata è stata in piedi e che dopo due anni di choc provocata dallo Stato nelle sue diverse articolazioni (magistratura, commissari, eccetera) è praticamente sull’orlo del fallimento“.
Ieri Gozzi rispondendo alle domande dei giornalisti sull’attuale situazione dell’ ILVA di Taranto, prima dell’inizio degli Stati Generali dell’acciaio che si sono svolti a Milano alle Officine del Volo, è ritornato sull’argomento “Sottolineiamo da tempo i moltissimi errori che sono stati fatti in questa vicenda, a partire dai commissariamenti che non hanno dato niente se non una gigantesca distruzione di ricchezza. Hanno violato principi fondamentali del diritto e rappresentato un’ombra sulla reputazione internazionale del Paese” aggiungendo “quando si espropriano le aziende senza indennizzo e poi si fanno fallire, l’investitore straniero ci pensa 50 volte per venire ad investire“.
Dichiarazioni quelle di Gozzi, come sempre smentite dai fatti. Infatti Arcelor Mittal, multinazionale franco-indiano leader del settore siderurgico è in prima fila per rilevare lo stabilimento di Taranto, insieme al gruppo Marcegaglia. “Noi – ha replicato l’amministratore delegato Antonio Marcegaglia – siamo da sempre schierati a fianco di Arcelor Mittal e questa è una scelta precisa legata alla forza industriale e finanziaria di Mittal. E riteniamo – ha aggiunto – che Mittal sia il candidato più qualificato per una sfida così importante.”
“L’impegno di Mittal“ ha spiegato l’industriale Marcegaglia “è assolutamente un investimento serio, solido e di medio termine. Non capisco chi lo dava per non fondato. Mittal è interessato genuinamente ad una maggiore presenza in Italia che sia certamente a rafforzamento del mercato. Il nostro piano industriale per l’ ILVA è valido, così come l’azienda è necessaria all’ Italia è assolutamente funzionale ai piani di Mittal“. A più di qualcuno sopratutto dalla memoria corta o a gettone, è sfuggito…che il Gruppo Marcegaglia è dell’omonima famiglia che ha espresso un recente presidente di Confindustria, e cioè Emma Marcegaglia, l’attuale multinazionale italiana nel settore energetico-petrolifero. Che qualcosa di industria ci capisce.
La memoria corta e le tangenti di Gozzi. Il presidente di Federacciai, che nel marzo dello scorso anno è stato arrestato ( e poi rilasciato) a Bruxelles, accusato di corruzione nell’ambito di un’inchiesta su presunte tangenti pagate in Congo ad alcuni ufficiali pubblici per ottenere appalti. Il quotidiano regionale ligure Il Secolo XIX, citando alcuni quotidiani belgi, scriveva che “Gozzi era sospettato di aver escogitato con altre persone un piano per diversificare le attività del gruppo in Congo nel gioco d’azzardo (l’uomo politico ha anche presieduto una società congolese del settore) e nel sito Metallurgical Maluku. Kubla ha ammesso di aver dato 20.000 euro alla moglie del primo ministro congolese Adolphe Muzito durante una delle sue visite a Bruxelles, ma ha sostenuto che “si trattava del pagamento di una fattura”. L’ex ministro aveva inoltre fondato a Malta la Socagexi Ltd, che ha ricevuto dalla Duferco ( società di Gozzi – n.d.r.) un totale di 240.000 euro. Le fatture fanno riferimento a un “sondaggio sulle prospettive commerciali in paesi africani (Congo, Guinea)” e “costituzione di una società in Congo”.
Quei bravi ragazzi dei Riva….. Gozzi nella moltitudine di elogi sperticato al Gruppo Riva, ha dimenticato filone di indagine per evasione fiscale guidato dal neo-procuratore capo di Milano Francesco Greco che ha portato al sequestro di 1.2 miliardi di euro detenuti dai trust promossi dai Riva in Jersey, una delle isole del Canale a sovranità britannica, utilizzate per gli affari “offshore”, di cui 1 miliardo circa è depositato presso Ubs Fiduciaria a Zurigo, e gli altri 200 milioni sono in Italia, presso Banca Aletti & Co. Secondo la ricostruzione degli investigatori, i Riva avrebbero fatto confluire il denaro nei trust di Jersey attraverso complesse operazioni societarie su finanziarie di diritto olandese e lussemburghese, a loro volta legate alle attività industriali del gruppo. In pratica, gli ex- padroni dell’ ILVA hanno prelevato denaro dalle casse delle aziende produttive per nasconderlo all’estero al riparo del Fisco. Il meccanismo finanziario messo a punto nel tempo dai Riva non temeva confronti con le più sofisticate alchimie studiate dai grandi banchieri internazionali. Ne sanno qualcosa gli investigatori che da mesi stanno cercando di ricostruire i flussi di denaro che in qualche modo fanno capo all’ottuagenario Emilio Riva insieme a figli e nipoti. Alla morte di Emilio, i figli hanno rinunciato in Italia all’eredità, ben consapevoli che i forzieri di famiglia stanno all’estero, ben protetti al riparo di paradisi fiscali come l’Olanda e il Lussemburgo. Del resto il patron Emilio era uomo di mondo, non solo per lo splendido villone di Cap Ferrat, in Costa Azzurra, da decenni frequentato dalla famiglia. Più di vent’anni fa, alla caduta del Muro, l’imprenditore milanese fu il primo a precipitarsi in Germania Est per rilevare a prezzi di saldo alcune grandi acciaierie del posto.
Un affarone. Ma c’è dell’altro, molto altro. I documenti ufficiali raccontano di movimenti per miliardi tra le società oltrefrontiera “targate” Riva. Questo denaro serve in buona parte ad alimentare un colosso industriale come l’ILVA, ma risalendo controcorrente il gran fiume dei soldi non è escluso che possano emergere nuove sorprese. A Torino, per esempio, i controlli dell’Agenzia delle entrate si sono concentrati su un’operazione di rimpatrio che in qualche modo sembra ricondurre ai Riva. Una somma importante, una cinquantina di milioni di euro, è rientrata dall’estero in Italia grazie allo scudo fiscale varato negli anni scorsi dalla premiata coppia Berlusconi-Tremonti. Quel denaro, anche se formalmente gestito da un professionista, sarebbe in realtà riconducibile ai padroni dell’ ILVA. Questo almeno è il sospetto degli ispettori del Fisco nostrano, che hanno messo nel mirino quel movimento anomalo. Resta da vedere se le indagini verranno davvero a capo di qualche irregolarità. In generale, però, l’individuazione del patrimonio dei Riva può rivelarsi fondamentale per quello che in termini giuridici viene definito “sequestro per equivalente“. E cioè le somme che eventualmente potrebbero servire per far fronte al risarcimento per i danni ambientali causati dallo stabilimento ILVA di Taranto.
Riva, Berlusconi e Bersani. Intanto però lo scandalo dei veleni che ha travolto l’acciaieria, con gli arresti e il sospetto di mazzette a funzionari pubblici, bastano (e avanzano) per proiettare una luce sinistra sull’impero finanziario di una delle grandi famiglie del capitalismo italiano, imprenditori che negli anni scorsi sono stati in prima linea nel finanziamento a partiti e uomini politici, da Forza Italia a Pier Luigi Bersani, e che ai tempi del governo Berlusconi non si sono fatti pregare per intervenire nel mancato salvataggio di Alitalia, di cui il gruppo Riva (con un investimento di 120 milioni di euro) era di di fatto il terzo azionista dopo Air France e il gruppo di società riconducibili a Banca Intesa. Sarà un caso, ma l’istituto che all’epoca dei fatti guidato dall’ex- ministro Corrado Passera si è distinto come uno dei più importanti finanziatori della galassia d’attività della famiglia milanese. Una galassia in continua evoluzione, come dimostrano le novità di queste ultime settimane.
L’inchiesta dell’ Espresso. In un dettagliato reportage dell’ottimo collega Vittorio Malagutti si evidenziava che non è difficile non notare, infatti, che i Riva hanno messo mano al sistema delle loro holding d’oltreconfine. Scissioni, scorpori, fusioni varate proprio nelle settimane calde dell’inchiesta giudiziaria sull’acciaieria di Taranto, con l’arresto, tra gli altri, di Emilio (ai domiciliari vicino a Varese, prima di morire di tumore) e del figlio Fabio, che è fuggito all’estero per evitare il carcere, e rimpatriato con rogatoria internazionale si trova attualmente in carcere in Lombardi, dove si sta curando dal tumore che ha colpito anche lui. Quella maledetta malattia di cui rideva al telefono minimalizzandola quando parlava del calvario dei molteplici tumori tarantini. La lussemburghese Stahlbeteiligungen holding (d’ora in poi, per semplicità, Stahl holding) ha girato la propria quota nell’ ILVA (il 25,3 per cento) alla Siderlux, un’altra società lussemburghese creata in quei giorni dai Riva. Poche settimane prima, invece, a fine luglio, la stessa Stahl holding si era fusa con la controllata Parfinex, anche questa con base nel Granducato.
Le “scatole cinesi” dei Riva all’estero per evadere il Fisco. In cima alla catena societaria troviamo la Utia. Cioè la finanziaria che controlla la quota più rilevante del capitale della Riva fire, la holding italiana della famiglia. Utia ha formalmente sede in Lussemburgo, ma in pratica ha i connotati di una società svizzera. Il suo bilancio è espresso in franchi e lo statuto si basa sulle leggi della Confederazione. Ebbene, il 3 agosto scorso, nel pieno della bufera, Utia ha rafforzato il capitale di 20 milioni di franchi, circa 16,5 milioni di euro. Chi ha messo i soldi? Risposta: la Monomarch, un’altra finanziaria, questa volta olandese, che fa capo alla famiglia dei padroni dell’ILVA.
Come si spiegano queste operazioni? Va detto che anche in passato i Riva hanno più volte rimescolato le carte nel mazzo del loro impero. E i riassetti sono sempre stati spiegati con l’esigenza di semplificare l’organigramma, nel senso di rendere più agevoli i flussi finanziari (dividendi e altro) verso i piani alti della catena di controllo. Certo che con l’aria che tira, e la minaccia di sequestri giudiziari sulle quote della famiglia, ogni passaggio azionario finisce per apparire di per sé non proprio casuale. Indagini a parte, per i Riva l’obiettivo numero uno è sempre stato quello di pagare meno tasse possibile. E allora, per ridurre al minimo indispensabile il carico fiscale, conviene tenere all’estero le casseforti e giocare di sponda sui finanziamenti alle controllate. La Stahl holding, per dire, a fine 2011 vantava un attivo di bilancio di 4,8 miliardi di euro con prestiti alle consociate per 1,8 miliardi. Ma c’è una cifra che più di tutte dà un’idea dell’enorme ricchezza parcheggiata all’estero dai Riva. Conti alla mano si scopre che la Stahl holding custodisce qualcosa come 1,6 miliardi alla voce “utili degli esercizi precedenti“. Cioè i profitti non distribuiti ai soci che sono andati a rafforzare il patrimonio della holding.
A volte, però, il gioco a rimpiattino con il Fisco finisce male. Nel 2011 il gruppo Riva ha patteggiato con l’Agenzia delle Entrate il pagamento di 97 milioni per sanare una serie di irregolarità che riguardano, recita il bilancio della holding Riva Fire, l’impiego di liquidità. La somma sarà versata all’Erario in tre rate annuali. Ma c’è anche un capitolo penale. Come ha rivelato a suo tempo il Corriere della Sera , il pm milanese Carlo Nocerino chiuse un’inchiesta con rinvio a giudizio a carico dei Riva, per frode fiscale che vedeva fra gli indagati Emilio Riva e alcuni manager dell’ILVA. In pratica sarebbero state costruite alcune operazioni all’estero al solo scopo di produrre perdite e quindi ridurre il carico d’imposte. Risultato: secondo l’accusa l’azienda siderurgica sarebbe così riuscita a risparmiare, in modo fraudolento, almeno 52 milioni sulle tasse.
Il colpo grosso però fu un altro. Un affare da 400 milioni. anche questo un affare fiscale . In pratica sintesi, nei conti del 2011 i Riva erano riusciti a guadagnare qualcosa come 478 milioni di euro grazie a una capriola contabile. Nel bilancio consolidato della holding Riva Fire apparve la voce “imposte anticipate su perdite fiscali“. Praticamente, gli amministratori del gruppo hanno utilizzato da subito i risparmi d’imposta che prevedono di avere nei prossimi esercizi. E come per incanto alla fine il bilancio del 2011 si chiuse con 327 milioni di profitti. In realtà senza quel provvidenziale “giochetto” fiscale, però, i conti sarebbero in rosso per una trentina di milioni. Operazioni queste regolari almeno fino a prova contraria. Infatti questa manovra fiscale quando ricorrono particolari circostanze è consentita dalla legge . E i Riva, a quanto pare, ben consigliati hanno pensato bene di cogliere al volo l’occasione. Un’occasione, come detto, che vale 400 milioni di euro.
Non caso un motivo la famiglia Riva sotto inchiesta per i veleni dell’ ILVA di Taranto da molti anni è ormai tra i migliori clienti dello studio fiscale Biscozzi Nobili, cioè una delle “firme” più rinomate della consulenza tributaria. I collegi sindacali delle principali società del gruppo Riva non a caso sono presidiati da professionisti dello studio Biscozzi Nobili. E spesso provengono anche dallo stesso studio i fiduciari che prendono parte alle assemblee societarie per conto della famiglia. In pratica, un servizio completo. Consulenti, rappresentanti e controllori, i commercialisti pagati dai Riva per rappresentare la famiglia e quelli che, secondo la legge dovrebbero vigilare sui conti del gruppo fanno capo al medesimo studio professionale. Quando si dice un pacchetto chiavi in mano. Conflitto d’interessi incluso.
I sequestri giudiziari della procura di Milano. Oltre agli 1.2 miliardi già sequestrati, la Procura di Milano ha congelato all’estero altri 700 milioni, che fanno capo ad Adriano Riva, fratello di Emilio, lo storico “patron” dell’ ILVA deceduto recentemente. La Procura di Milano segue altri tre filoni investigativi per frode fiscale nei confronti della famiglia Riva. Il primo riguarda un giro di derivati con Deutsche Bank, per cui ILVA ha già pagato 180 milioni di euro e il cui processo penale è attualmente in dibattimento a Milano. Un secondo filone di indagini per “truffa ai danni dello Stato“, legata all’utilizzo improprio di fondi Simest, ha portato in pochi mesi alla condanna a 6 anni e mezzo di Fabio Riva, attualmente detenuto in Lombardia.
Nell’ambito di questo processo, ha spiegato il procuratore capo Greco, è avvenuta la confisca di 100 milioni di euro, in gran parte costituiti da denaro contante o immobili siti in Italia. Un ultimo filone di indagini riguarda le relazioni tra ILVA e Riva Fire. Il rapporto tra le società era regolato da un contratto che prevedeva un’erogazione media di circa 150 milioni annui di ILVA alla controllante (Riva Fire), cifra battezzata dal precedente Commissario Enrico Bondi la “tassa del Califfo”. Le analisi della società di revisione PwC hanno rilevato che il contratto di prestazione di servizi poteva vedere un’erogazione massima di 10-15 milioni annui. Il differenziale tra gli importi segnala una modalità alternativa di liquidazione degli utili di ILVA ai suoi soci, su cui gli inquirenti milanesi stanno accertando il reato di frode fiscale.
Ma tutto questo Cozzi, la Federacciai, Confindustria quando parlano di ILVA e dei loro “amichetti” della famiglia Riva con i giornalisti lo dimenticano… sempre. Anche perchè tanto non glielo ricorda nessuno. Figuriamoci a Taranto dove i Riva hanno “oliato” la maggioranza delle testate e giornalisti locali,