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22 Novembre 2024 12:06

Quelli che vorrebbero far fuori gli avvocati dai processi

Caso Consip, che pena quei giornalisti che ignorano i fondamenti della Costituzione e il diritto alla Difesa

di Piero Sansonetti* 

Gli avvocati di Tiziano Renzi hanno deciso di svolgere una indagine difensiva sul caso Consip, e di interrogare i testimoni di accusa. Questo ha creato un grande stupore. Forse anche qualcosa di più: una certa indignazione. Soprattutto tra i giornalisti, la maggioranza dei quali, probabilmente, non conosce l’esistenza di questa procedura.

Per una ragione semplice: considera il procedimento giudiziario un lavoro di indagine e di giudizio interamente affidato ai magistrati, ai quali è demandato, dallo Stato, il compito e il potere esclusivo di farsi un convincimento, trovare le prove o almeno gli indizi, affermare la verità e poi erogare la pena. Invece non è così. I giornalisti, generalmente, sebbene moltissimi di loro abbiano iniziato a lavorare dopo il 1988 ( cioè dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale) ignorano il fatto che in Italia la Costituzione e le leggi prevedono che accusa e difesa siano sullo stesso piano, si contrappongano liberamente in condizioni di parità e che il confronto tra loro sia il meccanismo che serve a cercare la verità.

E così, per esempio, ieri Il Fatto Quotidiano ha sparato un titolo gigantesco e furioso, in prima pagina, che dice testualmente: « L’accusatore Marroni è avvisato: resta in Consip e deve ritrattare» . L’uso dell’italiano è un po’ incerto, ma la riga sopra il titolo ( in gergo si chiama l’occhiello) spiega bene il perché di questa denuncia: «GRANDI MANOVRE: l’avvocato di Tiziano Renzi: “Lo sentiamo nelle indagini difensive”». Il giornale di Travaglio ritiene che la decisione degli avvocati di Renzi di avviare indagini difensive, e di ascoltare i testimoni, sia nella sostanza una gigantesca e intollerabile opera di intimidazione, che punta a scagionare il signor Tiziano. E la malignità dell’azione degli avvocati è evidente e indiscutibile, e sta proprio in questa perniciosa intenzione di scagionare Tiziano Renzi, e forse, di conseguenza, anche il ministro Lotti, e in questo modo mandare a gambe all’aria tutta l’inchiesta ( che se perde questi due imputati diventa acqua fresca che non interessa i giornali e che non ha la possibilità di far saltare i rapporti di forza in politica). C’è bisogno di prove ulteriori per capire quanto sia grande la mascalzonata degli avvocati di Tiziano?

L’articolo che sostiene questa denuncia del Fatto è firmato da Marco Lillo, cioè dal giornalista che sin qui ha ricevuto illegalmente e pubblicato molte informazioni riservate sull’inchiesta, e ora però è rimasto “a secco” dopo la sciabolata del Procuratore Pignatone che ha esautorato il “Noe” ( il Nucleo Ecologico dei Carabinieri) e ha ( per il momento) bloccato la fuga di notizie e mandato nel panico i “giornalisti d’inchiesta”. Ieri Lillo non aveva nessun verbale da pubblicare e nessun segreto d’ufficio da rivelare e perciò si è dovuto occupare dei difensori di Renzi. Scrive, a un certo punto, esattamente così: «La mossa difensiva dell’avvocato di Tiziano Renzi, Federico Bagattini, punta al cuore del teorema accusatorio e rende ancora più evidente la situazione paradossale». Qual è il paradosso? Chiaro: che gli avvocati tentino di smontare le accuse! Lillo sostiene questa tesi in tutta tranquillità e in evidentissima buona fede. E sempre in buona fede usa con grinta la parola “teorema”, per farci capire che la giustizia vera, quella giusta, si fa così: coi teoremi. Le indagini? Rischiano di diventare un intralcio, specie se sono riservate. Meglio il teorema.

Voi magari direte che su queste cose c’è un po’ da ridere. Non è vero. Non c’è niente, nientissimo da ridere. Il giornalismo italiano è straconvinto che il ruolo di un avvocato in un processo non abbia nulla a che fare con la ricerca della verità né con la contrapposizione all’accusa, ma debba mantenersi nei limiti dignitosi della richiesta di clemenza. L’idea che l’avvocato sia un elemento fondamentale della costruzione del processo e della produzione della giustizia, e che sia uno dei pilastri dello Stato di diritto, non è presa nemmeno in considerazione. E siccome so con certezza che le cose stanno così, adesso ricopio, parola per parola, alcuni commi dell’articolo 111 della nostra carta costituzionale, e propongo ai dirigenti dell’Ordine dei Giornalisti di introdurre tra le prove d’esame per diventare giornalisti professionisti, una prova che preveda la recitazione a memoria di questo caposaldo nella nostra civiltà giuridica. Dice l’articolo 111, dal secondo comma in poi: «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.

Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore (…) Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore».

E’ impressionante non la lontananza ma la assoluta incompatibilità tra questo articolo della Costituzione e le teorie del Fatto, condivise da un gran numero di giornalisti di tanti tanti altri giornali. Eppure proprio il Fatto, mica tanto tempo fa ( un paio di mesi) era stato la punta di lancia di uno schieramento che sosteneva che chi mette in discussione la Costituzione è un golpista o giù di lì. Sono i capolavori imprevisti della buona fede. Difendere, con impeto, le cose che non si conoscono.

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