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22 Novembre 2024 11:32

Il giornalismo pataccaro che infanga

Rosaria Capacchione è una giornalista, senatrice, componente della Commissione parlamentare Antimafia

di Rosaria Capacchione

Prendiamo lo stralcio di un qualunque verbale di un qualsiasi collaboratore di giustizia. E’ vecchio di vent’anni? Non importa, è un documento. E’ smentito da una sentenza? Pazienza, anche i giudici sbagliano. E’ superato dalla storia? Dipende. Dipende da chi racconta la storia e perché.

E se nel verbale c’è il nome di un politico, pure di piccolissimo cabotaggio; di un investigatore, meglio se conosciuto e stimato; di un imprenditore; ecco che quel verbale diventa uno scoop (?) e il giornalista che lo pubblica una penna coraggiosa e con la schiena dritta (ricordate Fortapasc?).

E se poi quel verbale diventa strumento di interdizione, di ricatto, di indebita pressione, di “mascaramento” strumentalmente programmato – una calunnia, insomma – si saprà un giorno, quando quel pezzetto di veleno avrà compiuto il suo corso.

E in terra di mafia, avrà aiutato la mafia.

E’ fatta di storie così la storia del giornalismo 3.0, quella del giornalismo d’inchiesta taroccato e dei copia-incolla seriali, l’uno e l’altro funzionali alla costruzione della post-verità tanto cara a chi predica il superamento delle ideologie, ma meglio sarebbe dire delle idee, e pratica il depistaggio di bassa lega, funzionale a garantirsi una piccola entrata in nero.

Giornalismo pataccaro, privo di idee e di capacità di analisi, che prospera soprattutto dove c’è abbondanza di verbali da spacciare per verità (almeno processuali) dimostrate. Mi vengono in mente tante piccole vicende, molte raccolte durante le audizioni in commissione antimafia, di giornalisti d’inchiesta che tali non erano, e spesso neppure giornalisti.

Altre, raccontate dalle inchieste giudiziarie degli ultimi mesi, in Sicilia, che hanno smascherato penne e voci coraggiose che tali non erano. Altre ancora, documentate in tanti anni di attività in Campania, in provincia di Caserta, in territorio dei Casalesi.

Quando la magistratura ha voluto vederci chiaro, assai di rado, ha scoperto autentici verminai: con giornalisti di piccolissime testate, soprattutto web ma non solo, che non hanno mai raccontato storie raccolte sul campo ma hanno gridato accuse contro quello o quell’altro (avversario politico o mancato finanziatore di una campagna pubblicitaria o, peggio ancora, nemico dichiarato del capoclan) forti di “pizzini” mascherati da obsoleti stralci di verbali superati da riscontri di segno contrario.

La camorra casalese ci ha prosperato su cose così, finanziando giornali e giornalisti accondiscendenti. Qualche volta riuscendo a imporre la sua post-verità. Menzogne che nel tempo breve hanno più like dei fatti, con buona pace della stampa libera e del giornalismo d’inchiesta, quello vero, relegato in una enclave sempre più stretta e sempre meno frequentata.

Tutto il resto è pascolo libero per mafie, imprenditori da rapina, politica corrotta e collusa.

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