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22 Novembre 2024 05:15

Mafia, un brand di successo

di Attilio Bolzoni

E’ la parola italiana più conosciuta al mondo. Più di pizza, più di spaghetti. La troviamo in tutti i dizionari e in tutte le enciclopedie di ogni Paese, dal Magreb all’Australia, dall’America Latina al Giappone. Ha la sua etimologia probabilmente nell’espressione araba “maha fat”, che pressappoco vuol dire protezione o immunità. Quando un italiano – e soprattutto un siciliano – va all’estero, la battuta è sempre una, immancabile: «Italia? Mafia. Italiano? Mafioso». E poi giù una risata. Come se l’argomento fosse divertente.

La parola mafia non ha sempre avuto lo stesso significato. Un secolo fa rappresentava una cosa, un’altra negli Anni Cinquanta e Sessanta, un’altra ancora dopo le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ogni epoca ha avuto la sua mafia.b Ufficialmente esiste dal 25 aprile del 1865 – quando il termine “Maffia“, scritto con due effe, apparve per la prima volta in un rapporto ufficiale inviato dal prefetto Filippo Antonio Gualterio al ministro dell’Interno del tempo – ma ha avuto la sua incubazione almeno un secolo prima. Nel Regno delle Due Sicilie c’erano sette e unioni e “fratellanze” con a capo un possidente, un notabile e spesso anche un arciprete.

Fenomeno tipico della Sicilia e delle regioni meridionali – in Campania è camorra e in Calabria ‘ndrangheta – secondo i funzionari governativi di quegli anni «era incarnata nei costumi ed ereditata col sangue». Per letterati e studiosi delle tradizioni popolari come Giuseppe Pitrè «il mafioso non è un ladro, non è un assassino ma un uomo coraggioso..e la mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della propria forza individuale».

Dal 9 settembre del 1982 essere mafioso in Italia è reato. Dal 30 gennaio del 1992 – sentenza della Corte di Cassazione sul maxi processo a Cosa Nostra – la mafia è considerata un’associazione criminale e segreta. Ma nonostante ciò la parola mafia è diventata un “marchio” di qualità, un brand di successo. Nel febbraio del 2014 sono andato in Spagna per realizzare un reportage su una catena di 34 ristoranti che si chiamano “La Mafia se sienta a la mesa“, la mafia si siede a tavola. Ai loro clienti offrono una carta fedeltà e una “zona infantil” riservata ai bambini con speciali menu.

Per fortuna la presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi ha portato avanti una battaglia attraverso il ministero degli Esteri e, dopo un paio d’anni, l’Ufficio Marchi e Disegni dell’Unione Europea ha censurato i proprietari della catena di ristoranti spagnoli accogliendo un ricorso dell’Italia «per l’invalidità del marchio». In Austria hanno pubblicizzato un “panino Falcone“, nome del giudice grande nemico dei boss ma che «purtroppo sarà grigliato come un salsicciotto».

In Sicilia si vendono da sempre gadget inneggianti ai mafiosi, pupi con la lupara, tazze con il profilo del Padrino-Marlon Brando, magliette e adesivi che fanno il verso a Cosa Nostra. In Germania ha grande mercato da qualche anno la musica della mafia, spacciata anche da alcuni miei colleghi tedeschi come «autentica cultura calabrese». Ho ascoltato una canzone “dedicata” all’uccisione del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. Comincia così: «Hanno ammazzato il generale/non ha avuto neanche il tempo di pregare..».

Oscenità smerciate come tradizione popolare.

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