ROMA – L’energia elettrica non è un bene “indispensabile alla vita” e chi si allaccia abusivamente alla rete sostenendo di non avere i soldi per la bolletta non può essere scusato per aver agito spinto dallo “stato di necessità“. Lo sottolinea la Suprema Corte di Cassazione con la propria la sentenza 39884 depositata oggi, confermando la condanna (l’entità non è nota) per furto di energia elettrica nei confronti di una donna pugliese dichiaratasi sfrattata, senza lavoro e con una figlia incinta.
Così è stato respinto il ricorso di Concetta C., una signora quarantacinquenne di Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi, che era ricorsa in cassazione per trovare una giustificazione al proprio allaccio abusivo alla rete elettrica a causa delle sue condizioni “precarie e faticose”. La decisione della Suprema Corte conferma la precedente decisione emessa dalla Corte di appello di Lecce il 28 settembre 2016 che aveva leggermente ridotto la pena alla donna, dichiarando tuttavia sussistente l’aggravante di aver agito fraudolentemente dal momento che anche quando l’allaccio avviene “senza rompere o trasformare la destinazione del cavo”, si tratta sempre di un allaccio abusivo e come tale compiuto con fraudolenza.
Nel giudizio affrontato dalla Cassazione “la mancanza di energia elettrica non comportava nessun pericolo attuale di danno grave alla persona, trattandosi di bene non indispensabile alla vita, nel senso sopra specificato (infatti, l’energia elettrica veniva utilizzata anche per muovere i numerosi elettrodomestici della casa): semmai idoneo a procurare agi e opportunità, che fuoriescono dal concetto di incoercibile necessità”, condizione che la legge richiede per non emettere condanna.
Secondo la Suprema Corte, “l’ esimente dello stato di necessità postula il pericolo attuale di un danno grave alla persona, non scongiurabile se non attraverso l’atto penalmente illecito, e non può quindi applicarsi a reati asseritamente provocati da uno stato di bisogno economico, qualora ad esso possa comunque ovviarsi attraverso comportamenti non criminalmente rilevanti“.
La donna è stata anche condannata a pagare 2 mila euro di multa alla cassa delle ammende per la pretestuosità dei motivi di ricorso.