di Giorgio Assennato
E’ incredibile come certe condizioni ambientali possano rapidamente turbare la psicologia di una persona apparentemente tranquilla. Quando, alle tre e un quarto, ero entrato nella caserma, ero assolutamente tranquillo. Nulla lasciava presagire che sarei andato incontro alla peggiore serata della mia vita. Ancor più incredibile che la escalation del mio disagio psichico si produceva spontaneamente senza apparenti stressori esterni, essendo gli unici potenti agenti stressanti l’attesa e il silenzio. I primi segni di scompenso vennero fuori alle sette e mezzo, dopo quattro ore di attesa: duecentoquaranta interminabili minuti.
Ero in preda ad un’irrazionale ansia, che evolveva precipitosamente verso l’angoscia. A un certo punto chiesi ad un ufficiale che passava da quelle parti se avesse una qualche idea sull’orario del mio interrogatorio. La sua risposta mi raggelò, dandomi il definitivo uppercut da ko. “Ma lei come si aspettava di essere trattato dopo le dichiarazioni rilasciate alla stampa?” .
Mi venne subito in mente la mia intervista del mese precedente, subito dopo la notifica dell’avviso di garanzia. Avevo dichiarato istintivamente ma imprudentemente che non avevo alcuna fiducia nella magistratura inquirente tarantina. Il massimo del “politically incorrect“. Ma io non sono e non sono mai stato un politico. Da me non ci si può aspettare dichiarazioni in perfetto stile mainstream tipo:”Ho piena e totale fiducia nella magistratura“.
Ogni volta che leggo frasi di questo tipo mi viene un attacco di orticaria. Sono sempre stato, da buon sessantottino, anti-autoritario anzi anti-autorità. Avevo sempre pensato, sino a quel momento, che la costituzione mi potesse garantire un solido habeas corpus, il diritto di esprimere qualsiasi opinione con l unico discrimine di non commettere reati. Invece in quel momento sentivo che stavo pagando il fio della mia improvvida esternazione. Dopo una mezzora, sentii dei rumori provenire dalla stanza dell interrogatorio e poi un vociare e poi un rumore di passi. Venni a sapere che avevano interrotto l’ interrogatorio di Nichi ( Vendola n.d.r.) per una pausa.
A quel punto l’angoscia ebbe una ulteriore accelerazione. Volevo a tutti i costi sapere a che ora sarei stato interrogato. Sentii un rumore di passi che si avvicinavano e vidi la figura ieratica del procuratore capo (Franco Sebastio n.d.r.) che si avvicinava. Sperai con tutto il cuore che sarebbe venuto a informarmi della situazione e man mano che la sua figura ingrandiva nel mio campo visivo la speranza di un contatto cresceva. Ma proprio davanti alla porta aperta della mia stanza cambiò bruscamente direzione ed entrò nella stanza di fronte.
Dopo un po’, ne uscì sempre senza guardare il mio volto angosciato a due-tre metri di distanza, tornò sui suoi passi e si allontanò. Non ho mai più provato quella sensazione di essere un’immondizia, un rifiuto indifferenziato da discarica che provai allora. Altro che cittadino protetto da una Costituzione democratica! Devo comunque ammettere che non avevo subito alcun maltrattamento, anzi. Avevo fatto tutto io, una sorta di autotortura psichica, essenzialmente automatica. Alle nove e mezzo, dopo sei ore di attesa, mentre ero quasi al delirium tremens terminò l’ interrogatorio di Nichi.
Mi vide, mi salutò molto cordialmente e se ne andò col suo avvocato. Aveva una espressione sfatta, stracotta attraverso il suo sguardo potevo immaginare il mio. Look altrettanto, se non più, squassato del suo. A quel punto mi sentivo come un vecchio ronzino nell’ora fatidica del macello. Emanuela (il mio avvocato) ed io entrammo nella stanza dell’interrogatorio.
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