ROMA – L’ufficio del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone ha depositato l’atto di appello alla sentenza del processo “Mafia Capitale”. Il ricorso si base sulla tesi che la costruzione accusatoria mantiene la sua validità. Infatti oggetto dell’impugnazione in appello è l’esistenza di una sola associazione invece che due, l’esclusione del metodo mafioso e la riproposizione del 416 bis.
Lo scorso 20 luglio i giudici della X sezione penale del Tribunale di Roma presieduta dal giudice Rosanna Ianniello, avevano inflitto in primo grado agli imputati oltre 250 anni di carcere, rispetto ai 500 chiesti dai pm, facendo cadere l’accusa di associazione mafiosa che invece contestavano i pm Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli, condannando Salvatore Buzzi a 19 anni di reclusione , 20 anni per Massimo Carminati, 11 per Luca Gramazio, l’ ex capogruppo del Pdl al Comune di Roma, facendo cadere l’accusa di associazione mafiosa per 19 imputati del processo .
La Cassazione aveva riconosciuto nella primavera del 2015 l’impianto accusatorio della Procura di Roma: l’allora ipotizzato “clan” di Massimo Carminati secondo i parametri sanciti dall’articolo 416 bis del Codice Penale costituiva un’associazione mafiosa . Secondo i giudici della sesta sezione penale della Suprema Corte “la forza intimidatrice” di un’associazione di tipo mafioso non deve essere esclusivamente fondata sulla “violenza” ma anche sulla “contiguità politica ed elettorale” che trova la sua peculiarità nel “metodo corruttivo”» .
I magistrati della Suprema Corte di Cassazione quindi ebbero una visione più ampia della forza intimidatrice dalla quale derivano “l’assoggettamento e l’omertà” che può trovare conferma in una “sistematica attività corruttiva” che “esercita condizionamenti diffusi nell’assegnazione di appalti, nel rilascio di concessioni, nel controllo di settori di attività di enti pubblici o di aziende pubbliche”.
Una sentenza quella degli ermellini che non coincide con la decisione presa dal giudice Ianniello lo scorso luglio, con la quale escludendo l’esistenza dell’articolo 416 bis è stato di fatto “smontato” parte di quel procedimento. Ma la “partita” non è finita e la Procura di Roma è convinta di veder prevalere alla fine dell’iter giudiziario le proprie ragioni istruttorie