di Francesca Laura Mazzeo
ROMA – La quinta sezione penale della Suprema Corte di Cassazione, ha confermato ad una trentenne di Pordenone la pena patteggiata di quindici giorni di reclusione, convertita in un multa da 3.750 euro, per il reato di sostituzione di persona (articolo 494 del codice penale), in quanto la donna aveva utilizzato la foto di un’altra persona come immagine del proprio profilo Facebook. L’imputata aveva presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza del Gip della sua città che non le aveva consentito la sospensione del procedimento con la messa alla prova. Il ricorso è stato rigettato dalla quinta sezione penale, che ha considerato inappellata la decisione del gip.
La donna nell’istanza di revoca del consenso al patteggiamento non aveva fatto esplicita richiesta di sospensione ma aveva solo chiesto più tempo per valutarne la convenienza. In assenza quindi di una chiara decisione sulla strategia difensiva dell’imputata , il Gip conseguentemente non aveva ritenuto di revocare la pena concordata. Adesso oltre alla multa, rateizzata in 30 mesi, la donna dovrà anche pagare le spese processuali.
La sentenza è arrivata a pochi giorni dall’annuncio di una nuova stretta sul tema della privacy: dal prossimo 25 maggio entrerà in vigore il nuovo regolamento generale europeo per la protezione dei dati personali, il cosiddetto Gdpr. Il social network inizia a prendere le misure per farsi trovare pronto all’appuntamento e intanto, in tema di fake news, l’azienda di Menlo Park annuncia che è pronto uno strumento di fact checking per seguire le prossime Politiche italiane.
La Cassazione si era già espressa sulla questione dei profili falsi, dei doppi profili e delle molestie su Facebook: chi crea un profilo falso su Facebook, utilizzando un nickname inesistente per occultare la propria identità e poi molestare altre persone in chat, commette reato di sostituzione di persona. Lo aveva stabilito la Cassazione con la sentenza n. 9391/14. Con tale pronuncia, la Suprema Corte ha condannato una donna che aveva aperto su Facebook un profilo con un nome di fantasia e, attraverso tale account, aveva molestato un’altra persona.
Secondo la Suprema Corte anche questa condotta può essere considerata un reato . Nella specie, si tratterebbe del reato di sostituzione di persona (art. 494 cod. pen) : “Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino ad un anno”.
Ovviamente, per commettere l’illecito in questione non è sufficiente aprire un profilo fake su un social network, ma è necessario anche che ciò avvenga allo scopo di procurare a sé (o a terzi) un vantaggio o di danneggiare altri. Anche una semplice molestia in chat, dunque, unita all’utilizzo di un profilo Facebook con un nickname di fantasia, può comportare il rischio di un processo penale. Di recente, l’Agenzia Ansa ha stimato che in Italia , all’interno dei social network, un profilo su tre sarebbe falso (in gergo informatico si definisce “fake”)