di Federica Gagliardi
Occhio a denigrare sui socialnetwork la propria azienda per cui si lavora. La Suprema Corte di Cassazione ha infatti ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che denigra l’azienda per cui lavora con un post dai contenuti diffamatori su Facebook. La Sezione Lavoro della Cassazione ha rigettato il ricorso di una donna che chiedeva di dichiarare illegittimo il licenziamento intimatole dal datore di lavoro, un’impresa di commercio di sistemi antifurto e sicurezza, la cui decisione di licenziare l’impiegata era già stata confermata dai giudici del merito del Tribunale di Forlì in primo grado e successivamente dalla Corte d’appello di Bologna.
La condotta contestata alla lavoratrice e posta a fondamento del licenziamento consisteva in “affermazioni pubblicate” dalla donna sulla propria “bacheca virtuale di Facebook” in cui la dipendente esprimeva “disprezzo” per l’azienda per cui lavorava, commentando “mi sono rotta i c… di questo posto di m…. e per la proprietà“: i giudici del merito avevano ritenuto irrilevante che non fosse stato specificato nel post il nome del rappresentante della società, dato che era facilmente identificabile il destinatario.
La Cassazione con una sentenza depositata oggi ha dichiarato legittimo il licenziamento rilevando che “la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione”.
Gli ermellini di “Palazzaccio” hanno aggiunto che “comporta che la condotta di postare un commento su Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, con la conseguenza che, se, come nella specie, lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili, la relativa condotta integra gli estremi della diffamazione e come tale correttamente il contegno è stato valutato in termini di giusta causa del recesso, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo“.
A volte anche un semplice commento su Facebook può integrare la fattispecie delittuosa della diffamazione prevista e disciplinata dall’art. 595 del c.p. Per comprendere al meglio quanto previsto dalla sentenza pronunciata dal Tribunale di Campobasso in tema di diffamazione aggravata, è necessario soffermarsi su quanto disposto dalla norma poc’anzi citata. L’art. 595 del c.p. prevede che: “”Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno” . Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni.
La norma prevista dal Codice Penale ha come obbiettivo quello di garantire la cosiddetta reputazione dell’individuo, ovvero l’onore inteso in senso soggettivo quale considerazione che il mondo esterno ha del soggetto stesso. Di conseguenza colui che lede questo diritto dev’essere punito secondo quelli che sono i dettami della legge. Facebook, in più occasioni, è stato definito un mezzo idoneo a raggiungere un numero apprezzabile ed indeterminato di persone. Sempre nel 2017, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4873/2017 ha affermato che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa“, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico.
L’orientamento della Corte di Cassazione è stato confermato ed arricchito dal Tribunale di Campobasso con la sentenza n. 396/2017 con la quale i giudici molisani hanno condannato per diffamazione alcune persone che si erano resi responsabili del reato di diffamazione aggravata per aver leso su Facebook la reputazione di una persona.
Il post diffamatorio venne “letto” da un numero di utenti particolarmente elevato. Quindi conseguenza anche i vari “mi piace” furono numerosissimi; ma ciò che ha aggravato la posizione del soggetto in questione furono soprattutto i numerosi commenti denigratori e diffamatori rivolti alla persona diffamata. Alla luce di ciò, il Tribunale ha ritenuto responsabili penalmente per diffamazione aggravata sia l’autore del post incriminato che due dei suoi “amici”. Quindi, dopo aver individuato l’offesa ad una persona determinata, l’autore del post ed il destinatario di quest’ultimo, il Tribunale ha riconosciuto nei confronti di tutti gli imputati l’aggravante prevista dal terzo comma dell’art. 595 c.p. (oltre che quella di cui al comma 4) posto che la diffamazione tramite internet costituisce un’ipotesi di diffamazione aggravata in quanto commessa con altro (rispetto alla stampa) mezzo di pubblicità.
Provate ad immaginare cosa accadrebbe a Taranto se la Direzione del Personale dell’ ILVA iniziasse a monitorare le bacheche Facebook dei suoi dipendenti…