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22 Novembre 2024 04:43

Genova per noi.

La tentazione di tacere davanti a questo spettacolo imbelle, indecoroso e vile è forte, quasi irresistibile. Ma chi si occupa di politica e di giustizia non può farlo, neppure di fronte alle tragedie: anzi, soprattutto di fronte alle tragedie. E allora non si può non dire che il Governo deve fare il suo mestiere, che è quello di occuparsi dei vivi, delle famiglie delle vittime, degli sfollati, della ricostruzione.

di Michele Laforgia

Decine di morti e feriti, centinaia di sfollati, una città intera, Genova, in ginocchio. E la scoperta che siamo tutti in pericolo, perchè in Italia – e forse in Europa – esistono migliaia di ponti e viadotti costruiti quaranta e cinquant’anni fa, con tecniche obsolete, che avrebbero bisogno di immediati interventi di verifica e manutenzione straordinaria. Per non parlare degli immobili, Tribunali compresi.

Il crollo del ponte Morandi ha rivelato come il nostro modello di vita riposi su fondamenta fragilissime. Perchè ognuno di noi è bizzarramente disposto a rischiare la propria e l’altrui incolumità ogni volta che prende un’auto, guida a 180 all’ora, magari di notte, magari dopo aver bevuto, magari chattando in contemporanea con il proprio telefono cellulare. Ma nessuno, compreso chi scrive, può accettare l’idea di precipitare nel vuoto per il cedimento di un ponte, in autostrada. Anche se la probabilità che accada è infinitamente minore, perchè quando accade può diventare un disastro. Come a Genova.

Quello della società del rischio globale e dell’incertezza è un tema di enorme complessità, che coinvolge direttamente la sfera della politica. Per molti anni incapace di dare risposte, la politica, da noi e in quasi tutto l’occidente, ha finito con il delegare la gestione del rischio al mercato, alle leggi dell’economia e all’iniziativa privata. Chi governa stabilisce le regole del gioco, la partita la disputano le imprese in base al rapporto tra costi e benefici e alla realizzazione degli utili. Così, chi costruisce autovetture si preoccupa di renderle relativamente sicure, ma senza rinunciare alla velocità, al comfort, al design, sapendo in anticipo che ogni anno si verificheranno un certo numero di sinistri con morti e feriti. Se circolassero solo vetture corazzate a 40 km orari avremmo un numero irrisorio di incidenti. Per non parlare del commercio di tabacco e del libero consumo di alcolici. Nel calcolo dei profitti entrano anche i morti. Da sempre.

Che questo schema fosse destinato a non funzionare, sul piano teorico, lo hanno scritto già 170 anni fa. Non è questo a sorprendere. Semmai, sorprende che se ne accorgano solo oggi i teorici del neoliberismo, i pasdaran delle privatizzazioni e gli epigoni dell’anarchia d’impresa, evidentemente immemori di quanto hanno sostenuto e praticato sino a poco tempo fa. Che i rimedi non siano semplici, atteso il precario stato di salute degli apparati pubblici – smantellati e mortificati da decenni di sottrazione di fondi e risorse – è altrettanto evidente. Ma che lo Stato debba tornare ad occuparsi in prima persona dell’economia, della gestione dei beni comuni e della tutela della collettività, non sembra più discutibile. Non lo era neppure prima di Genova, come qualcuno ha detto e scritto, anche in campagna elettorale.

Dopo Genova è accaduto, tuttavia, qualcosa di inedito. A poche ore di distanza dal crollo, i vertici istituzionali hanno tuonato contro la società concessionaria e l’azionista di maggioranza delle Autostrade, additandolo all’opinione pubblica come responsabile del disastro. Il dibattito, nelle stesse ore, ha rapidamente abbandonato il cedimento del ponte, i morti, i feriti, gli sfollati, la città di Genova, e si è trasformato in un referendum globale sulle responsabilità della famiglia Benetton, sulla revoca, rescissione, risoluzione o decadenza del contratto di concessione e, alla fine, anche sul pagamento dei pedaggi (con un passaggio logico quantomeno oscuro, nella sbilenca grammatica istituzionale del Ministro dell’Interno).

Chi si occupa di politica politicante troverà la mossa del governo ‘geniale’. Aver individuato un nemico pubblico allontana le responsabilità e pone le forze di maggioranza nella condizione per loro più favorevole, che è quella della semplificazione e della campagna elettorale permanente, accanto alla “gente”, “senza se e senza ma”, contro i “poteri forti” (ieri Soros e Big Pharma, oggi Autostrade e i Benetton). Chiunque obietta è automaticamente – e militarmente – additato come connivente e servo dei potenti. Chi è di sinistra non può, per statuto, difendere capitalisti e imprenditori. Chi si occupa di diritto, deve metterlo da parte di fronte ai morti e ai feriti. Il solo, timido barlume di unità nazionale si legge nell’abbraccio bipartisan disegnato tra i tifosi del Genoa e della Sampdoria, idealmente uniti dal crollo del ponte. Solo loro, però: che sugli altri campi di calcio si giocherà, con il lutto al braccio e dopo un minuto di silenzio. The show must go on.

La tentazione di tacere davanti a questo spettacolo imbelle, indecoroso e vile è forte, quasi irresistibile. Ma chi si occupa di politica e di giustizia non può farlo, neppure di fronte alle tragedie: anzi, soprattutto di fronte alle tragedie. E allora non si può non dire che il Governo deve fare il suo mestiere, che è quello di occuparsi dei vivi, delle famiglie delle vittime, degli sfollati, della ricostruzione. E dell’immediata messa in sicurezza di tutta le rete stradale, in concessione e non. Questo spetta al potere esecutivo, in uno Stato di diritto: non blaterare davanti alle telecamere, anticipare condanne e cambiare linea ogni mezzora, man mano che ci si rende conto dell’entità dei problemi, non solo giuridici, scatenati dall’improvvida caccia all’assassino.

Dovrebbe essere addirittura ovvio che solo dopo aver accertato le cause del crollo, possono e devono essere individuate le responsabilità politiche, civili e penali di chi ha reso possibile questa immane tragedia. Ma con i tempi e nei modi previsti dalle leggi – amministrative, civili e penali – sapendo che la ghigliottina mediatica non resuscita i morti e non risarcisce i vivi: aggiunge soltanto dolore a dolore, ingiustizia a ingiustizia, pena alle pene. Chi si occupa quotidianamente di processi lo sa: i diritti sono per tutti o per nessuno, l’eccezione che oggi vale per gli altri domani riguarderà anche te, o chi per te. E senza regole, da sempre, i più deboli, non i più forti, soccombono.

Questo dovrebbe fare, oggi, una forza di sinistra. Censurare “senza se e senza ma” ogni tentativo di giustizia sommaria, invitare il governo ad assumere le proprie responsabilità, monitorare quanto è stato fatto e quanto si dovrà fare da subito per garantire l’incolumità dei cittadini sulle strade e sulle autostrade. Naturalmente senza declinare dal proprio compito, che è quello di combattere le diseguaglianze anche quando si annidano nelle clausole dei contratti miliardari – e originariamente secretati – delle concessioni di Stato.

Fare politica, insomma, anche per ripristinare il sacrosanto primato dell’interesse pubblico in economia. Ma senza confondere i piani e senza cedere di un solo millimetro sul piano dei principi e dei diritti. Perchè oltre c’è solo la barbarie e l’ombra, minacciosa, di un nuovo totalitarismo.

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