di Marco Follini
Ogni giorno che passa, il “grillismo” sembra avvitarsi su se stesso fino a produrre la sua inesorabile crisi. Oggi è il giorno del voto in Basilicata, più che dimezzato. Ieri era la disfatta romana di Virginia Raggi e dintorni. L’altro ieri era l’inchino politico-giudiziario a Matteo Salvini, o magari invece quelle inutili punture di spillo che servirebbero a ristabilire i rapporti di forza di un anno fa.
E ogni giorno, o quasi, è quella prova di insipienza governativa che si accompagna a una retorica del “cambiamento” sempre più difficile da condividere. Tant’è -appunto- che gli elettori ora sono in fuga e i bookmaker della politica italiana scommettono sul collasso prossimo venturo del M5S all’indomani delle europee.
Ora, è possibile che le cose stiano andando così, e che finiremo per trovarci di qui a poco con un solo populismo (quello salviniano) e non più con due. Ed è perfino possibile che una volta finita la competizione tra i due populismi, malamente regolata da contratto, quello dei due che sopravviverà si possa acconciare a vestire panni, diciamo così, più canonici e istituzionali. Possibile, dicevo, anche se personalmente faccio fatica a crederci più di tanto.
E tuttavia, mi sembra un po’ troppo consolatorio questo modo di ragionare. Perché sì, è vero i populisti al governo stanno dando una prova più che deludente, a tratti perfino imbarazzante. Sì, è vero, i loro stessi elettori cominciano a non poterne più. E sì, è vero, le forze chiamiamole così di sistema stanno riguadagnando un po’ di terreno. Dunque, può succedere anche da noi quello che sta capitando in Gran Bretagna, dove dall’abisso della Brexit sembra riemergere a poco a poco una più confortante mobilitazione di segno europeista.
Ma stiamo attenti a pensare che il clima dell’opinione pubblica possa cambiare come il vento della Cornovaglia. La deriva “populista” infatti non è il voto del 4 marzo scorso. E non è quel susseguirsi di proclami e di retoriche di cui siamo stati fin qui spettatori e vittime al tempo stesso. È un movimento più profondo, un vero e proprio rivolgimento dell’opinione pubblica che ha preso forma in anni e anni di prediche sbagliate offerte come un mantra dalla classe dirigente di prima. Non tutta, e non tutta allo stesso modo, s’intende.
Ma è pur sempre la “seconda” Repubblica che ha generato la “terza”. Evocandola con i suoi errori, ma più ancora con alcune delle sue parole d’ordine. Fino a far lievitare quel soufflé di velleitari propositi e di fondamentali equivoci che lo chef stellato Giuseppe Conte si ostina oggi a portare in tavola come se fossimo alla tavola di Maxim.
La bolla del M5S forse sta cominciando a scoppiare. Forse. Ma quel risentimento che l’ha fatta gonfiare a dismisura e che l’ha insediata nei palazzi del potere è ancora lì. E pensare che tutto possa essere archiviato in qualche mese mi sembra un’ingenuità storica e politica. È chiaro che nel vedere i disastri dei pentastellati viene a tutti (almeno a tutti noi) la tentazione di rendere pan per focaccia e sotterrarli sotto una coltre di contumelie. Che essi largamente meritano, è vero. Ma che finiscono per essere di nessun costrutto se non si accompagnano a una revisione profonda di noi stessi, attempati custodi di culture politiche che dovrebbero pur essere rimesse al mondo e spogliate dai loro travestimenti più recenti.
Temo che ci toccherà fare i conti ancora un po’ con il populismo post-grillino, diciamo così. Con i suoi rancori, con i suoi pregiudizi, con quello che resta delle sue parole d’ordine. Tutte cose che rischiano di sopravvivere, almeno per qualche tempo, anche alla modesta prova della sua azione di governo. La strada di risalita delle nostre culture ha bisogno di un tempo più lungo per arrivare a destinazione.
Liberarsi dell’illusione che si possa fare in un attimo sarebbe già un buon punto di (ri)partenza.