di Antonello de Gennaro
Al Ministero dell’Interno stanno riscrivendo il regolamento che disciplina il funzionamento ed utilizzo del C.E.D.: è il centro elaborazioni dati interforze, gestito dalla Direzione centrale della Polizia Criminale , il “cervellone” centrale che amministra le varie informazioni presenti nello S.D.I., il Sistema d’indagine, cioè il software dove la Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza inseriscono informazioni su soggetti attenzionati a vario titolo dagli investigatori: chi incontrano, chi frequentano, dove soggiornano e con chi sono imparentati. Uno strumento importantissimo soprattutto per le indagini più complesse e datate: dalla mafia, al terrorismo fino alle stragi.
Nel 1981 era stato istituito presso il Dipartimento di pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno un centro elaborazione dati (meglio noto come “C.E.D.“) che raccoglie i vari archivi istituiti dalla varie forze di polizia (il legislatore nel 2017 ha contato almeno 64 le banche dati che trattano dati personali!). La legge obbliga peraltro da tempo tutte le forze di polizia a far confluire nel Centro Elaborazione Dati del Dipartimento della pubblica sicurezza informazioni e dati destinati all’analisi e alla valutazione, nonché alla loro successiva disponibilità da parte delle medesime forze di polizia (art. 6, primo comma, lett. a), l. n. 121/1981).
In particolare, per disposizione degli artt. 6/ 1 lett. a) e 7/ 1 della l. 121/81, e per effetto dell’obbligo introdotto nel nel 2001 per tutte le Forze di Polizia, di alimentare, con completezza e tempestività, il CED (art 21 L. 128/2001), oggi nel CED sono conservati i dati e le informazioni
- ricavati da indagini di polizia, ovvero
- risultanti da documenti della pubblica amministrazione o
- da sentenze o provvedimenti dell’autorità giudiziaria.
- acquisite durante attività amministrative
- o nell’attività di prevenzione o repressione dei reati.
Il senso è ovviamente quello di rendere immediatamente consultabili e utilizzabili anche da parte delle Forze di Polizia che non le hanno originate le informazioni confluite nel CED. Non è questa la sede per qualche considerazione sulla creazione di banche dati di “sorveglianza globale” , contenenti oltretutto giudizi sulla stima e la reputazione degli interessati, notizie sulle relazioni familiari ed amichevoli, e notizie “atte a lumeggiare la figura dell’interessato“, con una proliferazione eccessiva e conservazione stabile dalla sola Arma dei Carabinieri di un numero enorme di pratiche permanenti (circa 95 milioni!, come rilevava nel 2001, un allarmato Garante per la protezione dei dati personali ).
Va però ricordato come oltre ad un numero di fascicolo eccessivo (!), lo stesso Garante aveva altresì rilevato una eccessiva ampiezza delle informazioni inserite e l’eccessivo numero dei soggetti abilitati alla consultazione: pensate che nel 2005 il sistema informativo del CED annoverava un numero elevato di soggetti legittimati alla sua consultazione, complessivamente superiore a 130.000 unità abilitate presso circa 12.000 uffici, con un volume giornaliero medio superiore a 650.000 accessi da parte di circa 8.000 soggetti abilitati, con 47 profili differenziati di autorizzazione che vanno dalla sola abilitazione alla consultazione fino ad un utilizzo particolarmente ampio dello S.D.I .
Nonostante il tempo passato con mutamento del quadro normativo in materia di riservatezza dei dati, sia a livello sovranazionale con il Regolamento UE 2016 679 e la Direttiva (UE) 2016/680, che a livello nazionale col D.lgs. 196/2003, D.lgs. 51/2018 e al D. Lgs. 101/18), e nonostante i plurimi interventi anche del Garante, la tendenza di far confluire nel CED più informazioni e autorizzando sempre più soggetti alla consultazione è purtroppo proseguita. Il legislatore non a caso è intervenuto recentemente con la L. 1 dicembre 2018, n. 132 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 281 del 03/12/2018, ampliando sia la tipologia di dati da inserire estendendolo ai nominativi dei conducenti di autonoleggio) che la platea dei soggetti legittimati alla consultazione (corpo e servizi di polizia municipale in comuni superiori a 100.000 abitanti), laddove inizialmente l’art. 9 della stessa legge consentiva l’accesso ai dati e la loro utilizzazione agli ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti alle forze di polizia, agli ufficiali di pubblica sicurezza, ai funzionari dei servizi di sicurezza e all’autorità giudiziaria per gli accertamenti necessari per i procedimenti in corso e nei limiti stabiliti dalle vigenti leggi processuali, specificando che è vietato l’uso dei dati per finalità diverse da quelle inerenti alla tutela dell’ordine, della sicurezza pubblica e della prevenzione e repressione della criminalità.
Essendo un database in cui sono archiviate migliaia di informazioni personali, il C.E.D. dipende ovviamente dai controlli del Garante della privacy. E le nuove regole europee potrebbero presto variare l’utilizzo della banca dati da parte degli investigatori. Tutto, appunto, in nome della privacy. Il nuovo regolamento sul funzionamento del C.E.D., attualmente in fase di stesura, sarà tenuto a recepire le indicazioni contenute nel decreto del Presidente della Repubblica del 15 gennaio 2018.
È il Dpr che recepiva la direttiva europea del 2016 sul trattamento dei dati personali – in vigore dal 29 marzo 2018 – da parte delle autorità ai fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzioni di sanzioni penali. Adesso seguendo quel decreto i tecnici del Viminale stanno scrivendo le nuove regole per l’utilizzo del C.E.D. che spesso e volentieri fa acqua e non è aggiornato.
Vi spieghiamo il perchè: quando qualcuno deposita una querela-denuncia nei confronti di chiunque, l’ufficiale di polizia giudiziaria che ricevere e ratifica la querela, la inserisce a sistema nel Ced. Dopodichè quei dati vengono trattati dall’ Autorità giudiziaria, solo che quando la persona querelata o denunciata, risulta innocente ed ottiene l’ archiviazione, una sentenza di proscioglimento, o una sentenza di assoluzione da parte del Tribunale, nessuno aggiorna d’ufficio il dato trattato nel Ced e rimuove quel dato trattato, che rimane a disposizione delle forze dell’ordine e della magistratura, che conseguentemente spesso e volentieri sostengono precedenti inesistenti . E quindi la rimozione ed aggiornamento di questi dati ricade a carico della persona che deve affrontare un vero e proprio calvario burocratico previsto da qualche “genio”…poco pensante del Ministero dell’ Interno.
Occorre rilevare che l’inserimento nel CED con successiva consultazione ed utilizzo investigativo e processuale delle denunce o querele subite, non appare del tutto in linea con quanto autorevolmente statuito dalla Corte costituzionale, (sentenza 466/2005 che richiama anche le sentenze 78/2005 e 173/97) che ha affermato a più riprese come la denuncia “è atto che nulla prova riguardo alla colpevolezza o alla pericolosità del soggetto indicato come autore degli atti che il denunciante riferisce“, per cui non è possibile far derivare dalla sola denuncia conseguenze pregiudizievoli per il denunciato, in quanto essa comporta soltanto l’obbligo degli organi competenti “a verificare se e quali dei fatti esposti in denuncia corrispondano alla realtà e se essi rientrino in ipotesi penalmente sanzionate, ossia ad accertare se sussistano le condizioni per l’inizio di un procedimento penale” .
La permanenza nell’archivio CED di dette informazioni di polizia anche dopo l’archiviazione / assoluzione sono peraltro in contrasto con quanto affermato dalla CEDU, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha sancito che “lo Stato convenuto sia andato oltre il margine di apprezzamento di cui dispone in materia, in quanto il regime di conservazione, nello schedario in questione, delle impronte digitali di persone sospettate di avere commesso dei reati ma non condannate” condannandolo per violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU; MK vs. Francia, 2013, cfr. infra).
Il Dpr prevede un termine massimo oltre il quale le informazioni su una persona che ha commesso un reato, o che è stata condannata ed eventualmente detenuta, devono essere rimosse, quindi cancellate. “Spero che si tenga conto che la cancellazione di dati sensibili può pregiudicare l’efficacia di possibili investigazioni su omicidi e stragi di mafia e terrorismo. Fatti imprescrittibili in relazione ai quali l’importanza di un dato può rivelarsi essenziale anche a distanza di decenni”, sostiene Nino Di Matteo, pm della Direzione Nazionale Antimafia, esperto delle indagini sulle stragi.
“Il frutto di anni di indagini, controlli e procedimenti penali ad oggi conservati nella banca dati interforze Sdi, verrebbero definitivamente cancellati senza nessuna possibilità di recupero degli stessi, causando l’impossibilità di ricostruire eventi delittuosi, carriere criminali o collegamenti tra organizzazioni malavitose”, aggiunge Giuseppe Tiani, segretario del sindacato di polizia Siap. che ha scritto al Viminale per segnalare il “rischio tabula rasa” conseguente per la banca dati delle forze di polizia. I termini di cancellazione delle informazioni presenti in archivio sono esplicitati dall’articolo 10 del decreto del Presidente della Repubblica.
Chiunque sia stato sottoposto ad una misura interdittiva o cautelare, ed è stato poi condannato, dopo 20 anni dalla cessazione di tali misure non avrà più elementi relativi a quel precedente nello Sdi. In pratica se un soggetto commette un reato all’età di vent’anni e viene condannato a dieci anni di carcere, a 50 di fatto vedrà completamente “ripulita” la sua scheda negli archivi informatici del Ced. Lo stesso potrebbe accadere quando un giovane di 20 anni è colpito da una misura di prevenzione che dura, per esempio, tre anni: 25 anni dopo quell’informazione sarà eliminata dallo Sdi, quindi a 48 anni gli investigatori non avranno alcuna notizia su quel precedente.
In realtà dovrebbe essere scongiurato il rischio che le informazioni sugli indiziati per reati gravi venga cancellato in tempi più o meno brevi . Lo prevede infatti lo stesso decreto del Presidente della Repubblica che all’articolo 4 del Dpr, aumenta dei due terzi i termini di conservazione per i dati relativi a tutta una serie di reati gravi: l’associazione a delinquere di stampo mafioso, terrorismo, pedofilia, pedopornografia, prostituzione minorile, accesso abusivo a sistema informatico, intercettazione abusiva, frode informatica, devastazione, saccheggio e strage, omicidio, rapina, estorsione, sequestro di persona.
Per tutti questi reati i dati sui soggetti condannati vanno eliminati dopo 34 anni e non dopo 20, mentre quelle sulle indagini dopo 41 anni. Un limite più alto, certo, ma che potrebbe non bastare in un Paese che non ha mai chiuso le indagini sulle stragi di 40 o 50 anni fa. E che soprattuto non fa i conti con chi è riuscito a rimanere nell’ombra per anni dopo aver avuto un ruolo in delitti efferati. Il rischio è che nonostante l’aumento dei due terzi per i reati gravi gli investigatori possano avere seri problemi nelle indagini. È per questo motivo che Procure e uffici di Polizia Giudiziaria attendono di capire con ansia come verrà scritto il nuovo regolamento. E come sempre nessuno si preoccupa invece dell’aggiornamento dei dati a carico di persone che non hanno più pendenze con la Legge,