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22 Novembre 2024 01:41

Eni, Enel, Leonardo, Poste, servizi segreti e altre 400 poltrone: tutti i nomi in ballo nell’abbuffata delle nomine

Ecco chi c'è in pole e chi rischia di perdere il posto: la grande partita è cominciata. Nei prossimi mesi tra multinazionali, spa controllate dai ministeri, organismi indipendenti enti economici vari si ridisegna tutto il deep state italiano. La grande abbuffata è solo all’inizio. Ma i piatti in tavola sono così golosi che in tanti scommettono che il Conte bis, nato debole e già terremotato dalla mossa di Renzi, sopravviverà. Almeno finché tutti i territori del risiko delle nomine non saranno stati spartiti tra i nuovi padroni dell’esecutivo.

di Emiliano Fittipaldi*

La pazza estate della politica italiana, conclusasi con un clamoroso ribaltone e la nascita del Conte 2 a trazione giallorossa, ha mandato in ambasce mezzo Paese. Dai parlamentari di ogni partito all’opinione pubblica, dalle cancellerie internazionali ai media, i colpi di scena a catena e le capriole dei leader (ultima quella di Matteo Renzi, uscito dal Pd) hanno logorato per un mese protagonisti e osservatori più o meno interessati.

Ma tra le vittime che hanno subito più danni dallo “stress da crisi” vanno annoverati, senza dubbio, gli inquilini dei palazzi del potere. Amministratori delegati delle partecipate di Stato, dirigenti influenti delle authority, boiardi in cerca di riconferma e civil servant smaniosi di un posto al sole, tutti concentrati da mesi sulla grande stagione delle nomine 2019-2020. Un deep state che – dopo essersi dovuto riposizionare sulla Lega dopo il trionfo di Salvini alle elezioni europee di maggio – è stato costretto, all’improvviso, a fare un doppio carpiato con repentina marcia indietro.

Così da due settimane manager e funzionari che affollavano l’anticamera della sede leghista di via Bellerio hanno mollato i leghisti per precipitarsi (di nuovo) in direzione del Nazareno e della Casaleggio Associati, i quartier generali del Pd e del M5S. E chiedere udienza e raccomandazioni ai referenti dei partiti di maggioranza che si spartiranno gran parte delle 400 poltrone da assegnare nei prossimi mesi, contando multinazionali, spa controllate dai ministeri, organismi indipendenti enti economici vari.

Per vincere la partita delle nomine pubbliche i vari candidati dovranno sudare sette camicie. Perché i pretendenti e le ambizioni sono sterminati. E perché a banchetto parteciperanno, oltre ai plenipotenziari di Luigi Di Maio e di Nicola Zingaretti, altri due pezzi da Novanta della Terza Repubblica. Cioè Giuseppe Conte, che da Palazzo Chigi ha già fatto intendere di volere gestire un pacchetto considerevole da intestarsi personalmente. E il redivivo Matteo Renzi, che con il suo nuovo partito Italia Viva farà contare, anche sulla battaglia delle nomine, la golden share sul governo che lui stesso a contribuito a far nascere.

 

LE PARTITE ENI ED ENEL

Partiamo dalla polpa. Cioè dalle nomine delle grandi utilities dai fatturati miliardari e dal poderoso peso politico e strategico, come Eni, Enel, Leonardo-Finmeccanica e Poste, tutte previste per la primavera del prossimo anno. Renzi, in un passaggio dell’intervista a Repubblica con cui annunciava l’uscita dal Pd, ha già fatto capire indirettamente che farà le barricate se qualcuno pensa di toccare l’amministratore delegato del colosso elettrico, Francesco Starace.

Il manager è stato nominato a capo dell’Enel proprio dal governo del rignanese, e riconfermato nel 2017 da quello retto da Gentiloni. Ottimi rapporti con il Giglio Magico (conosce bene Marco Carrai dai tempi in cui era ad di Enel Green Power, mentre nel cda siede l’avvocato Alberto Bianchi, amico di Matteo ed ex presidente della Fondazione Open: con Salvini era considerato sicuro uscente, con il ribaltone una sua riconferma nel board è più che probabile, al lordo degli sviluppi dell’inchiesta della procura di Firenze che l’ha indagato qualche giorno fa per traffico di influenze), Starace è tra i registi dell’operazione Open Fiber, e da anni gira allo Stato dividendi monstre.

Non solo: investendo in tempi non sospetti sulle energie rinnovabili, sembra l’uomo giusto per quel “green new deal” annunciato prima dalla neonata Commissione Europea di Ursula von der Leyden e poi dal premier Conte nel suo discorso di fiducia alle Camere. Salvo sorprese, il manager (che ha buone entrature anche con Conte, che sul dossier delle partecipate chiederà più di un consiglio al suo mentore Guido Alpa) dovrebbe rimanere inchiodato alla sua poltrona.

“Starace? Lascerà l’Enel solo in caso di una sua promozione all’Eni”, dicono i ben informati da Palazzo Chigi. I manager del colosso petrolifero, in effetti, appaiono assai più traballanti dei cugini dell’elettrico. Claudio Descalzi, pur considerato da tutti un oilman più che capace, in primavera rischia di scontare gli scandali che hanno costellato il suo regno, iniziato nel 2014 grazie all’esecutivo Renzi.

Già imputato per corruzione internazionale dalla Procura di Milano per alcune presunte tangenti in Nigeria, il manager è finito nella bufera anche per i denari (oltre 310 milioni di dollari) che il gruppo Eni ha girato a una cordata di aziende africane che un’inchiesta dell’Espresso ha dimostrato essere state costituite, attraverso una società anonima di Cipro, dalla moglie (di cittadinanza congolese) di Descalzi stesso .

Non solo. I grillini imputano all’ad di essersi avvicinato troppo a Salvini, (secondo alcuni anche favorendo l’assunzione di giovani nel gruppo al fine di evidenziare la bontà del decreto Quota 100, fortemente voluto dal leghista), mentre gli uomini di Zingaretti non dimenticano le altre inchieste che hanno inguaiato alcuni fedelissimi su cui Descalzi cui aveva puntato moltissimo. Come Massimo Mantovani, coinvolto nell’indagine sui tentati depistaggi dell’indagine milanese portati avanti dal gruppo di faccendieri capitanati dall’ex legale dell’Eni Piero Amara.

Il manager e l’azienda hanno sempre respinto ogni addebito e ogni accusa, compresa qualsiasi partecipazione al Russiagate di Gianluca Savoini o alle trame di Lotti e Palamara contro il pm Paolo Ielo. Eppure – al netto dell’esito giudiziario dei procedimenti – una riconferma di Descalzi, come pure quella del presidente Emma Marcegaglia, sembra in salita.

Se la promozione di Starace appare un’ipotesi percorribile (per la poltrona di ad dell’Enel, a quel punto, potrebbe avere qualche chance il numero uno della multi utility bresciana A2A, Luca Valerio Camerano), altri decisori di peso stanno invece pensando a una soluzione “interna” all’azienda.

Esattamente come accaduto con Descalzi, che fu promosso amministratore delegato dopo essere stato capo della divisione Exploration & Production, i cacciatori di teste della maggioranza hanno cerchiato in rosso i nomi di alcuni profili che vengono dalla “scuola” dell’Eni. In particolare, quelli di Alessandro Puliti e di Luca Bertelli. Il primo, geologo con natali fiorentini, è da poco a capo della fondamentale divisione “Upstream”, ed ha ereditato deleghe importanti un tempo appannaggio dell’ex braccio destro di Descalzi Roberto Casula, anche lui imputato per l’affaire nigeriano, e di Antonio Vella, in uscita per pensionamento.

Pure Bertelli, numero uno dell’Exploration Officier, è nato in Toscana ed è laureato in geologia. E, come Puliti, ha scalato posizioni in azienda tenendosi lontano da scandali e polemiche. Ma Bertelli è anche l’uomo che è stato capace di individuare, grazie all’aiuto del suo team e di un super-software sviluppato dal colosso petrolifero, alcuni tra i più grandi giacimenti di gas del mondo scoperti degli ultimi decenni. Ultimo successo di Bertelli è arrivato nel 2015 quando nello specchio d’acqua di fronte a Zohr, in Egitto, è spuntato fuori – in un’area studiata per anni dalle multinazionali rivali – il più grosso giacimento del Mediterraneo.

“Manager come Starace o come Marco Alverà di Snam, pur bravissimi, di petrolio non sanno nulla. Meglio continuare con uno dei nostri“, sostiene chi all’Eni vuole continuità in azienda. Vedremo. Se la scelta cadesse su un interno, però, è probabile che il presidente sia un garante della nuova maggioranza politica. E tutti indicano Franco Bernabé, già all’Eni negli anni ’80 e ’90, come l’uomo che potrebbe tutelare al meglio sia la nuova cosa renziana Italia Viva (Bernabè è stato socio di Carrai), sia il Pd, sia il M5S.

Già: da sempre considerato vicino ai democratici, Bernabé è uno dei pochi finanzieri a cui Davide Casaleggio chiede consigli spesso e volentieri. I rapporti tra i due sono di antica data: “Bebè”, come lo chiamano i nemici, ha conosciuto bene il padre Gianroberto ai tempi in cui guidava Telecom, e la stima reciproca si è cementata nel tempo. Ospite di Sum, la kermesse che Davide organizza per ricordare il padre, Bernabé era addirittura dato qualche settimana fa in pole position come possibile presidente del Consiglio “terzo”, in caso non si fosse trovata la quadra su Conte.

LA GRANDE ABBUFFATA

Oltre alle utility dell’energia, la grande abbuffata interesserà altre big di peso. Fabrizio Palermo, ad della potentissima Cassa depositi e prestiti, non è in scadenza. Anche se non è amato dal Pd, difficilmente il M5S, suo grande sponsor, a partire da Stefano Buffagni, ne permetterà un defenestramento. Potrebbe però restare anche il suo competitor, il presidente Massimo Tononi, l’uomo delle fondazioni bancarie che qualcuno dava in uscita per gli scontri continui (in tema di spoil system sulle controllate) con Palermo.

Tononi spera adesso di poter fare proficuamente sponda con il nuovo inquilino del Mef, lo zingarettiano Roberto Gualtieri, che da ministro politico avrà un peso specifico assai maggiore rispetto a quello che aveva il suo predecessore Giovanni Tria. Presto – giurano dal governo e dal Pd, dove il deputato Claudio Mancini ha confessato a qualche suo amico di avere già la fila fuori di lobbisti che vogliono accreditarsi con il partito – potremmo così assistere alla fumata bianca su Sace. Una spa di Cdp attiva nell’assicurazione dell’export, i cui vertici sono scaduti da mesi, e il cui rinnovo (che era voluto da Tria senza se e senza ma) è stato bloccato per mesi da Palermo, che chiedeva invece un rinnovamento totale in salsa gialloverde.

A marzo vanno certamente rinnovati i vertici di Leonardo. L’ad Alessandro Profumo era considerato debole prima del ribaltone, ma non sembra che il cambio di maggioranza gli gioverà più di tanto. Mentre un nuovo rinnovo del presidente Gianni De Gennaro, ex poliziotto e nemico giurato dei grillini, dimostrerebbe in maniera plastica la metamorfosi del Movimento da partito di lotta a movimento pronto a collaborare con i poteri forti del Paese. A Fincantieri (che Renzi ha detto di sognare di “fondere” con Leonardo) rischia invece di continuare l’epopea di Giuseppe Bono, da ben 17 anni in sella al gigante della cantieristica che costruisce navi da crociera e militari.

Presidente dell’azienda è (e dovrebbe essere ancora) Giampiero Massolo, proveniente – come De Gennaro – dagli apparati di sicurezza dello Stato. Un altro settore che il nuovo governo potrebbe terremotare prima del previsto.

Al Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, non tutti sono infatti contenti del comando del generale Gennaro Vecchione, scelto solo un anno fa da Conte in persona. Finito qualche giorno fa (per fortuna senza conseguenze gravi) con la sua auto di servizio contro i dissuasori in acciaio che proteggono l’ingresso della nuova sede dei servizi a Piazza Dante a Roma, l’operato di Vecchione ormai è messo in discussione anche dal premier, che – è cosa nota – ha mantenuto le deleghe sulle nostre barbe finte. L’ipotesi più accreditata è quella di un suo spostamento a Palazzo Chigi in veste di consigliere personale dell’ex avvocato del popolo, con la conseguente promozione di un interno (come Bruno Valensise, da poco nominato vicedirettore vicario) a nuovo numero uno.

Ma c’è un’altra opzione che non dispiacerebbe né a Conte né al Quirinale: lo spostamento del capo dell’Aise Luciano Carta (generale stimato dall’intero arco costituzionale) al Dis, e il contestuale avanzamento, come nuovo padrone della nostra sicurezza esterna, di Giovanni Caravelli. L’uomo che da anni gestisce le deleghe del complicatissimo dossier libico.

All’Aisi, il nostro servizio interno, si lavora invece da tempo al successore di Mario Parente. Qualcuno dava in vantaggio l’attuale vicedirettore (ed ex cacciatore di boss casalesi latitanti) Vittorio Pisani, ma il suicidio politico di Matteo Salvini – che lo stimava molto – potrebbe indebolire la sua candidatura.

Il ritorno di Renzi come protagonista assoluto della politica nazionale rafforza invece quella di Valerio Blengini: dato solo qualche settimana fa verso il pensionamento, lo storico dirigente del servizio potrebbe giocarsi ora più di una fiches per la poltrona che coronerebbe la sua carriera. Su ogni nomina dei servizi, come quella degli apparati di sicurezza dello Stato, Polizia in primis, i partiti e il premier dovranno sempre fare i conti con Sergio Mattarella e i suoi consiglieri, che intendono esercitare tutta la loro moral suasion in caso di candidati considerati dal Quirinale non all’altezza del compito.

Tornando alle partecipate, Invitalia potrebbe essere ancora casa del potente Domenico Arcuri, l’amministratore delegato in scadenza ma molto amato da Giuseppe Conte. Il presidente del Consiglio ha apprezzato anche il modo con cui il manager ha gestito, ad inizio anno, la partita del Contratto istituzionale di sviluppo della Capitanata: grazie al Cipe e all’abilità di Arcuri, per la provincia di Foggia così cara al premier sono arrivati ben 280 milioni di euro, tutti a favore di Comuni e imprese locali.

Anche Matteo Del Fante, ex renziano di ferro convertitosi al salvinismo, sta tentando di convincere il nuovo governo giallorosso a confermarlo ad di Poste spa. Un lavoro di persuasione affidato anche a Giuseppe Lasco, ex Guardia di Finanza che segue come un’ombra Del Fante dai tempi in cui i due erano insieme a Terna: già direttore delle relazioni istituzionali e del personale, Lasco è da qualche mese pure vicedirettore generale del gruppo. Per qualche osservatore malizioso, è lui il vero uomo “forte” di Poste.

Lust but not least, tra le nomine da sbrogliare con urgenza c’è quella dell’Anac (improbabile che a Raffaele Cantone succeda il numero due della procura di Roma Paolo Ielo, che non sembra disponibile) e quelle dei nuovi vertici del Garante della Privacy e dell’Agcom. Qui, all’authority per le Comunicazioni, si parla con insistenza del piddino Antonello Giacomelli, ma in lizza per la presidenza resta anche Vincenzo Zeno-Zencovich, che tanto piace al centrodestra. Il grillino Emilio Carelli – l’ex direttore di Sky che ha perso la battaglia dei sottosegretari – potrebbe invece sedersi nel board come consigliere. A quel punto, difficile ce la facciano altri due candidati forti della vecchia maggioranza gialloverde. Ossia la dirigente del Mise Laura Ria, che comunque vanta un curriculum più che adeguato, e l’avvocato Tommaso Paparo. Un outsider che ha buoni rapporti con il Movimento, qualche entrature nella Chiesa e pure nella comunità ebraica: siede infatti nel collegio sindacale della Fondazione Museo della Shoah.

La grande abbuffata è solo all’inizio. Ma i piatti in tavola sono così golosi che in tanti scommettono che il Conte bis, nato debole e già terremotato dalla mossa di Renzi, sopravviverà. Almeno finché tutti i territori del risiko delle nomine non saranno stati spartiti tra i nuovi padroni dell’esecutivo.

*articolo tratto dal settimanale L’ESPRESSO

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