di FEDERICA OLIVO*
“Dietro ogni nomina c’è una cena”. E poi un accordo e una serie di discussioni, in cui la politica prova a fare la sua parte, ma sa che alle correnti spetterà l’ultima parola. Luca Palamara racconta così il meccanismo che ha governato negli ultimi anni l’assegnazione degli incarichi ai magistrati. Soprattutto di quelli più importanti, soprattutto delle procure.
Non c’è solo la riunione all’hotel Champagne, è il senso del discorso che il pubblico ministero, oggi sospeso, al centro dell’inchiesta della procura di Perugia sulle nomine delle toghe, fa con HuffPost. Non c’è stata, cioè, solo quella cena con Luca Lotti, Cosimo Ferri e cinque togati del Csm, captata dal trojan installato nel cellulare di Palamara nella notte tra l’8 e il 9 maggio 2019. In quel caso si parlava della designazione del procuratore capo di Roma, quello che sarebbe diventato il successore di Pignatone.
Tante volte, però, – dice Palamara – è successo che le nomine siano state negoziate prima che arrivassero nella loro sede naturale: la quinta commissione del Csm e poi il plenum. “Il trojan ha fotografato un accordo tra due gruppi. In questo caso erano Magistratura Indipendente e Unicost. Bisogna vedere cosa fanno gli altri”. E’ il suo modo, ancora una volta, di ricordare che nelle negoziazioni portavano agli incarichi più prestigiosi non giocava da solo.
E’ passata quasi una settimana dall’espulsione dall’Associazione nazionale magistrati, il sindacato delle toghe. E appena una giornata dall’annuncio del procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, della richiesta di un provvedimento disciplinare per il magistrato e per altre nove toghe in qualche modo coinvolte nella vicenda che sta travolgendo il potere giudiziario italiano. Palamara racconta la sua versione. “Ha presente il manuale Cencelli?”, dice. “Ecco, noi lo usavamo stabilire gli incarichi, ma assicuro di aver sempre spinto per i più bravi”. Almeno per gli incarichi più importanti, precisa poi.
Lei negli ultimi giorni ha sottolineato più volte di non voler fare da capro espiatorio. Di essere stato parte di un sistema. Perché ha iniziato a parlare ora?
“Perché solo ora sono state depositate le carte della Procura di Perugia, che offrono uno spaccato diverso e quindi mi impongono un dovere di chiarimento. Per raccontare il meccanismo, ordinario, con cui si trattava per scegliere i magistrati da destinare agli incarichi. Il trojan, ferme restando le tutte eccezioni di inutilizzabilità, quando ha registrato la riunione all’Hotel Champagne, ha fotografato l’attività tipica delle associazioni dei magistrati: quella di negoziare gli incarichi. Stabilire quale magistrato mandare in un posto e quale in un altro. In questo caso i partecipanti erano esponenti e Magistratura indipendente e Unicost. Bisogna vedere cosa fanno gli altri gruppi. Ha presente il manuale Cencelli? “
Certo.
“Ecco, si applica anche alla magistratura. Si spartiscono gli incarichi in base all’appartenenza”.
Un’affermazione che non deve essere molto facile da digerire per un cittadino che ha tutt’altra idea della magistratura. Ma, quindi, non c’è stato solo l’Hotel Champagne? Ci sono state altre cene?
“Vuole sapere quante cene o incontri ho fatto dal 2007 ad oggi? Vede, dietro ogni nomina ci sono cene, discussioni, accordi tra correnti. Questo deve essere chiaro: non si muove foglia che corrente non voglia.“
Alla cena di cui stiamo parlando partecipavano due esponenti politici: parliamo di Cosimo Ferri (magistrato in aspettativa e già leader della corrente Mi, oggi parlamentare) e Luca Lotti. La magistratura dovrebbe essere, è per Costituzione, un potere indipendente. La politica incide nelle nomine?
“Partiamo dal presupposto che il ruolo preponderante lo hanno i magistrati, anzi, le correnti. Ma la politica vuole contare. I laici al Csm vogliono contare. E, lo ricordo, questi ultimi sono eletti dal Parlamento. Dalla politica. Non dimentichiamo che gli ultimi vicepresidenti del Csm sono stati dei politici.“
Va bene. Ma fin quando parliamo di discussioni all’interno delle commissioni del Consiglio superiore della magistratura o in plenum è un conto. Fare nomine, e quindi parlarne, è uno dei ruoli dell’organo di autogoverno. Qui, invece, stiamo parlando di riunioni che si svolgevano fuori da Palazzo dei Marescialli.
“Certo, ma l’interlocuzione con la politica c’è. Io, ad esempio, quando ero presidente dell’Anm ho incontrato tanti esponenti politici. Ritenevo di dover parlare con tutti”.
Ma, parliamoci chiaro: succede che un politico chieda, le abbia chiesto, di intervenire su una nomina?
“Lo ribadisco, una parte fondamentale nella partita delle nomine la giocano le correnti. Certo, poi spesso l’accordo tra loro non basta. Succede, certamente, che il politico voglia dire la sua sulle nomine. Ma sa bene che l’ultima parola spetta sempre e comunque alle correnti“.
Non l’ha mai spuntata la politica?
“Guardi, io sfido chiunque a censire una a una le nomine fatte quando ero consigliere del Csm (2014-2018) e a vedere se ho mai anteposto l’interesse personale o soddisfatto le pretese della politica. Su questo non temo nessun giudizio del pubblico, anzi sono io che lo chiedo. Voglio, però, che sia chiaro: il politico chiede, ma sa che la magistratura è dominata dai rapporti di forza tra le correnti”.
Da questo racconto non esce un ritratto edificante dei gruppi delle toghe. Lei dice che era prassi agire così. Ma non ha mai pensato che, continuando di questo passo, prima o poi qualcosa sarebbe esploso?
“Sì, ne ero consapevole. Sapevo che il sistema non avrebbe potuto reggere per sempre così”.
E infatti oggi ci troviamo con una magistratura che fatica a riprendersi la credibilità perduta. Ma c’è stato un momento di cesura? Che ha dato l’occasione alle correnti di prendere più potere?
“Sì, c’è un anno da prendere come riferimento: il 2007. Quando si decise che il criterio preminente per le nomine non sarebbe stato più l’anzianità. Non si doveva optare per chi era magistrato da più tempo, ma per chi era più bravo. Ma il punto è questo: chi lo decide chi è più bravo? E da qui il carrierismo, l’attitudine di alcuni magistrati ad autoproporsi ai leader delle correnti. E tutto il resto. Voglio, però, ribadire che almeno per i posti più importanti, quando io ho avuto un qualche ruolo, sono stati scelti i più bravi. Penso a Napoli, a Milano, a Genova. E che non ho mai messo in discussione l’indipendenza della magistratura”.
“Tutto il resto” sono i cocci che raccogliamo ora. Nei posti più importanti, dice lei, sono stati scelti i più bravi. In altri casi non è successo?
“Certo, basti pensare alle nomine alla Direzione Nazionale Antimafia, ad alcuni incarichi semidirettivi. Il cittadino deve sapere che se ad un certo punto c’erano otto nomine da fare per la Cassazione, si decideva che dovessero essere spartite tra le correnti”.
La Dna, dice, si riferisce alla mancata nomina di Di Matteo?
“Esatto. In quel caso è stato penalizzato perché non apparteneva a una corrente“.
Non solo lui, immagino.
“Già, ci sono tanti magistrati che non hanno mai fatto parte di questo sistema. Non hanno mai usato una corrente per avere un incarico. Ed è a loro che dobbiamo chiedere scusa, oltre che ai cittadini”.
Subito dopo la notizia dell’espulsione dall’Anm (arrivata sabato 22 giugno, ndr) lei ha iniziato a parlare, a chiamare in causa alcuni colleghi. Ma perché farlo ora, dopo più di un anno da quando l’inchiesta è iniziata, e non prima?
“Perché mi sembrava giusto parlare davanti a quello che in quel momento era il mio giudice, il Comitato direttivo centrale dell’Anm. Non mi è stata data la possibilità di farlo e sono stato espulso, decisione che non condivido ma rispetto. Ho ritenuto quindi di spiegare il meccanismo attraverso il quale ho svolto i 15 anni della mia vita associativa. E dovevo riferirmi a dei fatti”.
Quindi, in sostanza, ha deciso di fare nomi perché l’Anm non le ha dato modo di difendersi?
“Ho reso pubblico il documento che avrei letto se mi avessero fatto parlare. Non è altro che una ricostruzione dei fatti che potrebbero essere utili alla mia difesa.L’avrei voluto fare davanti al cdc, lo farò nelle altre sedi competenti. Ho voluto rendere noto il meccanismo attraverso il quale ho fatto associazionismo in magistratura negli ultimi 15 anni”.
Ieri il pg della Cassazione ha annunciato di aver chiesto l’azione disciplinare nei suoi confronti. A Perugia molto probabilmente dovrà affrontare un processo penale. Cosa si aspetta?
“Intanto faccio presente che l’accusa di corruzione più grave – quella di aver preso 40mila euro per la nomina del procuratore di Gela – non esiste più. Quanto al giudizio disciplinare, avrò modo di chiarire una volta per tutte – e con tutti gli atti a disposizione – come sono andate le cose. Fino ad ora è stato analizzato solo un frammento. Gli audio acquisiti faranno capire come si sono svolti i fatti”.
Lasciamo un attimo da parte l’inchiesta di Perugia. Di recente il dottor Di Matteo in audizione alla Commissione Antimafia, ha parlato di un presunto contatto che, nel 2012, il Quirinale avrebbe tentato con la procura di Palermo. Siamo nei mesi del conflitto di attribuzioni per le intercettazioni di Napolitano, giudicate irrilevanti e capitate nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia. Di Matteo, riportando parole di Ingroia, sostiene che dal Colle volevano avvicinare i pm. E che lei avrebbe potuto essere uno dei possibili mediatori. E’ vero?
“Guardi: una cosa è certa. Nella mia vita non ho mai voluto interferire nelle vicende altrui. Sono disposto però ad approfondire la mia attività di quel periodo”.
Mi sta dicendo che se la cosa fosse andata avanti, lei avrebbe effettivamente potuto avere un ruolo?
“Sto dicendo che se mi chiameranno nelle sedi opportune a spiegare cosa facevo in quei mesi, lo riferirò”.
*giornalista del quotidiano Huffington Post