di Massimo Gaggi
Dalle campagne pugliesi di Manduria – è cresciuto in una famiglia di viticoltori – alla start up di New York che promette di rivoluzionare il mondo delle pubblicazioni scientifiche: un’impresa che, secondo i «venture capitalist» che l’hanno finanziata, potrebbe addirittura sbriciolare il piedistallo sul quale è costruito il regno delle grandi riviste accademiche internazionali, da Nature aScience a The Lancet. Da Manduria a New York passando per Londra, dove è diventato un astrofisico (laurea UCL), il CERN di Ginevra dove si è occupato per due anni di fisica delle particelle, un dottorato di ricerca in “computer science” alla University of California (Ucla) e un incarico di ricerca post universitaria ad Harvard, con un contratto finanziato dalla Nasa.
Scorre veloce la vita di Alberto Pepe che ad appena 36 anni ha già un curriculum straripante ma che ora ha lasciato il mondo accademico per fare l’imprenditore. Lo incontro nella sede della società «Authorea» che ha co-fondato con un accademico americano, Nathan Jenkins, e della quale è amministratore delegato (Nathan collabora da Ginevra, dove si è trasferito per motivi personali). «Sede» è parola pomposa: sei ragazzi in una stanza vetrata zeppa di computer, persa in un oceano di altre stanze vetrate affittate da altre «start up». Non tutti sono sempre qui: alcuni “developer” collaborano prevalentemente dall’Europa.
Incubatori e acceleratori
Siamo in uno dei «coworking space» più grossi di New York, sulla 23esima strada, all’angolo di Park Avenue. Segreteria, bar cucine e spazi per videoconferenze in comune, ragazzi che emigrano da una sala riunioni all’altra a seconda delle disponibilità del momento. E’ qui che chi ha una buona idea ci costruisce intorno un “business model” e poi la trasforma in impresa. Le organizzazioni degli acceleratori aiutano le giovani “start up” ad accendere il turbo: si mette a punto il prodotto digitale nel più breve tempo possibile e a costi contenuti. Con la sua aria tranquilla da asceta seguace delle filosofie orientali, Alberto non sembra uno che sta correndo a perdifiato. Ma la storia che mi racconta è quella di una vita in bilico tra una vorace ricerca di nuovi stimoli accademici e una vita privata corrosa dal nomadismo e dai ritmi insonni della costruzione di una “start up”. Una fidanzata lasciata a Los Angeles per trasferirsi nell’università più blasonata d’America, salvo poi soffrire l’ambiente cupo, la competizione spietata tra studenti e tra docenti, la città fredda e con poco sole: «Venivo spesso a New York dove trovavo più stimoli» racconta Pepe. «Qui ritrovo Nathan, un vecchio amico col quale avevo lavorato al CERN. Una sera, davanti a una pizza di “Kestè”, scopro che io e lui abbiamo lo stesso problema con le nostre pubblicazioni accademiche: sono documenti complessi, spesso frutto del lavoro collaborativo di più persone. In campo scientifico possono essere anche decine: ne ho visti alcuni con 300 autori. Ma lavorare simultaneamente su uno stesso studio è problematico: ci si perde nella confusione dei vari formati». Fai mille copia e incolla e alla fine metti online la versione digitale di un documento cartaceo: testo più immagini.
Angeli con le tasche piene. E con le bussola
Alberto e Nathan provano a costruire una piattaforma nuova, eliminando i vecchi formati come il Pdf. Si fa tutto con tecnologia Html. Un documento aperto: ognuno può contribuire al testo, aggiungere note. E, alla fine, puoi agganciare un’intera banca-dati a supporto della tua tesi. Il sistema funziona, i due lo aprono agli amici dei loro atenei. Poi lo aprono alle altre accademie. Il giro si allarga e il dotto “hobby” di un gruppo di amici diventa impresa: Authorea. Con l’aiuto di VentureOutNY, una società che assiste le “start up” di New York lavorando, sul fronte italiano, con la Italian Business & Investment Initiative, Pepe comincia a frequentare gli incontri con gli investitori. Tra quelli che credono nel suo progetto e lo finanziano subito, Brian Cohen, presidente di New York Angel e primo finanziatore di Pinterest. E Alessandro Piol, “venture capitalist” italiano, co-fondatore di Vedanta Capital. Dai cosiddetti “angel investor” Alberto raccoglie 650 mila dollari coi quali investe sullo sviluppo del prodotto. «Ma da questi investitori» racconta ancora il giovane imprenditore pugliese, «non arrivano solo soldi, una linfa essenziale ma non sufficiente. Cosa ancora più importante, queste società ci offrono un supporto logistico e manageriale: ci fanno i “payroll”, le buste-paga per i nostri dipendenti, ci assistono nelle attività di marketing e comunicazione. E, soprattutto, si occupano del “mentoring”. Il nostro “background” è accademico, non abbiamo una vera cultura manageriale. Alcuni ti danno i soldi e poi non li senti più. Loro no: li incontri e discuti spesso. Facciamo una riunione di consiglio d’amministrazione almeno una volta ogni sei settimane».
Un milione di utenti
A fine 2014 Authorea aveva già 10 mila utenti. Pepe voleva arrivare a 50 mila, ma racconta che, quando lo dice ai suoi “angel investor”, si sente rispondere seccamente: «Ma quale 50 mila: devi puntare a un milione». Sembra una follia: i ricercatori in tutto il mondo sono 7 milioni e ci sono altre 5 o 6 società che negli Usa e in altri Paesi stanno cercando di sottrarre alle vecchie, blasonate riviste il mercato delle pubblicazioni scientifiche. Un mercato che, secondo le stime più attendibili, vale 27 miliardi di dollari l’anno a livello globale. Comunque nel giro di pochi mesi Authorea sale a 25 mila utenti: «Certe settimane cresciamo del 7%. Se andasse sempre così, arriveremmo al milione di utenti entro il 2015» spiega Pepe. Il modello di business è relativamente semplice e prescinde dalla pubblicità: una specie di Google Docs dei documenti scientifici. Chi consente il libero accesso agli studi messi in rete usa la piattaforma gratis, chi vuole mantenere la ricerca privata paga una modesta “fee”.
L’ambizione: diventare la più grande banca dati di studi accademici al mondo. Certo, Nature ha l’autorevolezza del marchio. E grazie a quella ottiene ricchi contratti con le università, i centri di ricerca, le grandi aziende. Ma Authorea sta lavorando allo sviluppo di altri metodi per certificare la credibilità di un “paper” attraverso un sistema di “ranking” digitale. «Si tratta di sviluppare un criterio di reputazione degli utenti» che sia affidabile, spiega Pepe. Oggi le riviste hanno i classici tre esperti che decidono se uno studio è degno di pubblicazione o va cestinato. Con Authorea, a ogni “paper” elaborato viene garantito un “posto al sole” nella piattaforma. Il suo peso specifico verrà poi definito introducendo criteri di valutazione. Ad esempio (ma è solo un esempio), gli accademici più quotati che votano per certificarne il valore. Tutto secondo la filosofia dell’«open science movement» e un modello collaborativo nel quale ognuno aggiunge informazioni sfruttando la ricchezza di «big data». A Pepe piace citare Galileo Galilei: «Quattrocento anni fa anche lui faceva ricerche, sostenuto dagli “angel investor” del tempo, i Medici. Scriveva testi, disegnava immagini di ciò che vedeva. Quattro secoli dopo facciamo ancora la stessa cosa: mettiamo online studi pensati come prodotto cartaceo. Fosse qui oggi, lui come si comporterebbe? Non cercherebbe di sfrutterebbe tutte le potenzialità di “big data” e del web per sviluppare analisi più complesse e approfondite?»
* articolo tratto dal Corriere della Sera