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22 Novembre 2024 13:42

LUIS ENRIQUE E FEDERICO CHIESA COME DUE BAMBINI AMICI. QUESTO E’ VERO SPORT

Le immagini di Luis Enrique e di Federico Chiesa, come quelle dei due portieri di Italia e Spagna che si abbracciano lungamente prima dei rigori, e dei due capitani che al momento di scegliere la porta in cui tirare i rigori, cercano di fregarsi e poi si mettono a ridere insieme, valgono più di mille inginocchiamenti a comando per non rischiare di essere etichettati come razzisti

di REDAZIONE SPORT

Non avevamo mai visto l’allenatore di una Nazionale parlottare e ridere col giocatore della squadra avversaria che gli ha segnato un goal nel corso della partita decisiva per accedere alla finalissima, mentre sta per iniziare il secondo tempo supplementare. In un momento di alta tensione sportiva ed emotiva, la sdrammatizzazione più completa. Lo abbiamo visto ieri sera martedì 6 luglio, assistendo davanti allo schermo televisivo insieme ad alcuni milioni di persone, alla semifinale degli Europei di calcio Italia-Spagna.

Abbiamo visto giocatori espulsi in partite fra amici minacciare l’arbitro che conoscevano da una vita con la bandierina del calcio d’angolo. Abbiamo sentito genitori di ragazzini che giocavano un torneo amatoriale insultarsi in tribuna per una punizione non concessa. Abbiamo visto in televisione un allenatore di calcio di serie A prendere a calci nel didietro l’allenatore della squadra avversaria.

Come due bimbi amici

Federico Chiesa che si avvicina a Luis Enrique, scambio di battute con la mano sulla bocca per non essere intercettati dalle telecamere, occhi che brillano e risata che erompe genuina. Di lì a qualche minuto si decideranno carriere, ingaggi, premi partita multimilionari sulla base del risultato finale; si deciderà chi nell’immaginario popolare incarnerà la figura del vincente e chi quella del perdente, che icona di sé consacreranno gli uni e gli altri nei ricordi delle rispettive tifoserie, il contenuto della memoria che verrà tramandata e continuerà a vivere attraverso i filmati eternamente riproposti dalla corsa di Marco Tardelli dopo il goal alla Germania, la delusione di Roberto Baggio dopo il rigore sbagliato contro il Brasile, al bianco e nero della vecchia tv con Gigi Riva che sorreggeva Gianni Rivera esultante dopo il goal del 4 a 3 ai Mondiali del Messico.

Ma Chiesa ed Enrique ieri erano assolutamente superiori a tutto questo, quasi insensibili alla tensione che li circonda e che si irradia in migliaia di luoghi pubblici o domestici dove le persone ed i tifosi stavano guardando la partita: loro due come bambini, o meglio due persone unite da una affascinante e meravigliosa maturità umana e sportiva

Più di mille inginocchiamenti

La maturità della leggerezza, del non prendersi sul serio, della sportività nel riconoscere e dimostrare che l’avversario in campo non è un nemico, nella consapevolezza che il calcio è guerra sportiva e per fortuna non una vera guerra, e proprio per questo motivo è bello riderci su insieme. Saranno per sempre un morso della coscienza e un richiamo al rispetto dell’altro da sé, al riconoscimento dell’uguale dignità, alla fraternità nella diversità delle appartenenze queste immagini di Luis Enrique e di Federico Chiesa così come quelle dei due portieri di Italia e Spagna che si abbracciano lungamente prima dei rigori, e dei due capitani che al momento di scegliere la porta in cui tirare i rigori, cercano di fregarsi e poi si mettono a ridere insieme, valgono più di mille inginocchiamenti a comando per non rischiare di essere etichettati come razzisti.

Enrique e Chiesa

L’allenatore spagnolo e l’attaccante italiano chiaramente non vanno canonizzati o santificati in vita, non vanno trasformati in santini: Chiesa riprenderà un domani a tuffarsi a terra ed a invocare il calcio di punizione al minimo contatto, come gli abbiamo visto fare in certe partite; probabilmente mister Enrique se la prenderà urlando in campo contro un arbitro distratto, in occasione di una prossima partita della sua Nazionale. Ma tutto questo non potrà togliere nulla alla genuinità di quello che tutti abbiamo visto ieri sera in televisione. Comportamenti che hanno probabilmente origine dalla biografia dei due protagonisti, e delle dolorose esperienze di vita attraverso cui sono passati.

Entrambi hanno conosciuto l’esperienza del dolore da cui hanno imparato a dare il giusto valore alle cose della vita. Luis Enrique ha visto strapparsi dal cancro la propria figlia Xana meno di due anni fa alla tenera età di 9 anni , Difficile immaginare come Enrique riesca a convivere con l’enorme dolore interno per la perdita di sua figlia. Accade quando tocchi il dolore sulla propria pelle, poi riesci con il cuore a dare alle cose il giusto peso. E’ davanti ad una persona, ad un uomo come questo, che bisogna inginocchiarsi e levarsi il cappello.

Federico Chiesa quando giocava nella Fiorentina ha perso tre anni fa l’amico, compagno di squadra e capitano Davide Astori colpito da una cardiomiopatia . Due tragedie diverse di perdere degli affetti: una malattia durata cinque mesi che ti si strazia il cuore mentre ti costringe a soffrire mentre assisti tua figlia, e la perdita improvvisa come l’infarto mortale a un amico, che ti lacera l’anima e ti fa urlare come una bestia ferita a morte.

Un grande uomo di sport, una grande persona

Non riusciamo a toglierci dalla testa quello che abbiamo vista ieri sera. Enrique che perde dominando, e si presenta sereno ai microfoni , parlando nella lingua dell’avversario, elogia la qualità della partita e non rimpiangi nulla. nessuna protesta. Ma non solo: da grande vero uomo di sport annunci che in finale tiferai per la squadra che ti ha appena battuto senza molto merito.: “Sono felice per quello che ho visto. Ho goduto di una partita di alto livello, con due squadre forti che cercavano di giocare un bel calcio, è stato uno spettacolo per i tifosi. Voglio fare i complimenti all’Italia, spero che in finale possa vincere questo Europeo. Tiferò per gli azzurri”, ha detto.

Non è stato molto amato, ai tempi della Roma, Luis Enrique o forse non è stato capito come è capitato ad altri colleghi che a Trigoria non hanno trovato il modo di mischiarsi con quell’insieme unico, specialissimo e potente che si trova solo nella Capitale sponda giallorossa. A proposito di quel folle anno romano, Daniele De Rossi che non è mai morbido nei giudizi ha desiderato dire che: “Pensammo fosse un matto, ma è l’allenatore che più mi ha cambiato. Se ripenso che lo abbiamo fatto scappare dopo dieci mesi, mi sento male”. Prima della partita si erano abbracciati, sorriso con gli occhi e stretti oltre un gesto simbolico. Perché la verità, quando è autentica, non ha bisogno di molto altro. Il resto rimangono solo parole che si perdono nel vento.

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