di Mons. Filippo Santoro *
Sono commosso e grato al Signore per poter celebrare questa Santa Mesa per i dieci anni della dipartita alla casa del Padre di monsignor Guglielmo Motolese. Commosso per essere successore di questo pastore straordinario, di vescovo e di padre, benemerito della città di Taranto e della nostra arcidiocesi. E sono grato per la sua testimonianza di donazione incondizionata al bene spirituale e materiale del suo popolo, come degno successore di san Cataldo.
Due stupende pagine bibliche che esaltano il gesto del dono, la misericordia dell’amore, ci sono offerte stamattina, ci illuminano in questa celebrazione eucaristica con cui rendiamo grazie al Signore per la testimonianza cristiana ed episcopale di monsignor Guglielmo Motolese. Il brano del Libro di Tobia che stimo leggendo in questa settimana, IX del Tempo Ordinario, è la risposta di Dio, portata dall’angelo Raffaele, ai gesti di carità del pio israelita Tobi e della sua famiglia. Dio ha guardato con tenerezza a quella semplice e immediata trama di amore intessuta a servizio dei fratelli in quella famiglia. Il cuore di Dio si rallegra quando l’uomo comprende che ”l’elemosina libera dalla morte, purifica dai peccati e fa trovare la misericordia e la vita eterna”. Il testo dell’evangelista Marco, trasmette la commozione di Gesù di Nazareth, seduto “di fronte al tesoro del tempio” a Gerusalemme, quando osserva, tra la folla di gente che offre monete per il culto, il gesto furtivo ed umile di una vedova povera che getta due spiccioli, cioè tutto “ quella che aveva per vivere”. Quel mattino è passata dinanzi agli occhi di Cristo la folla immensa degli umili e dei poveri, di coloro che danno a Dio, riconosciuto nel volto del fratello, non gli avanzi, gli scarti ma tutto loro stessi, il loro tempo, la loro passione d’amore, il loro cuore ! La vedova del dono, a pensarci bene, è di casa qui, nella Cittadella della Carità che porta l’impeto pastorale di S. E. Mons. Guglielmo Motolese.
Dieci anni fa monsignor Guglielmo Motolese, un grande Pastore della Chiesa italiana, un Vescovo del Mezzogiorno, venerato e amato, tornava alla Casa del Padre. La Diocesi di Taranto lo ricorda qui, nella Cittadella della Carità, la sua “creatura” prediletta, il “sogno” degli ultimi venti anni del suo ministero episcopale. Pregare per Lui, qui, farne rivivere qui la sua memoria, è stata una scelta meditata. Perché la Cittadella è il volto stesso di don Guglielmo, la sua eredità più viva e ancora parlante. Siamo oggi in Cittadella (ad saremmo potuti essere nella Concattedrale, opera monumentale del compianto arcivescovo) perché chiediamo a Motolese, fondatore di questa opera, di continuare ad amarla dal Cielo, di continuare a proteggerla e di pregare perché questo suo lascito prezioso custodisca la identità di porta aperta per chi è povero, per chi è in situazione di sofferenza e vive il tempo della fragilità.
Monsignor Motolese non sognava una struttura sanitaria ripetitiva e concorrenziale con altre significative e confermate presenze in Taranto. Sognava una casa di amore e di speranza, una espressione forte, toccabile, materializzata quasi, della carità di Cristo e della Chiesa. La Cittadella della Carità fu il frutto più maturo del suo episcopato: Casa San Paolo, Il Seminario di Poggio Galeso, la Concattedrale, le tante opere disseminate in ogni angolo della Diocesi, trovano nella Cittadella la loro sintesi e la loro pienezza. A lui è toccato il privilegio e la fatica di tradurre le intuizioni conciliari, accogliere e non imprigionare il vento nuovo che lo Spirito Santo soffiò 50 anni fa, quando si concluse il Concilio Ecumenico Vaticano II, di cui l’Arcivescovo Motolese fu “padre” con gli altri 2500 vescovi della Chiesa Cattolica. L’istituzione degli organismi diocesani di partecipazione, la proposta di lettura e attuazione dei documenti conciliari, che furono il programma delle sue visite pastorali, dei suoi innumerevoli incontri con le comunità parrocchiali, hanno nella intuizione della Cittadella il loro punto di sintesi. Monsignor Motolese intuì che la nuova immagine di Chiesa che traspariva dalla fatica del Concilio Ecumenico Vaticano II è la Chiesa dell’amore e della misericordia, la Chiesa icona della carità di Cristo. La Chiesa che si fa povera per parlare ai poveri, che si fa compagnia di strada accanto agli ultimi, che si fa voce profetica per gli ultimi e con gli ultimi. Quella intuizione oggi è lo stile stesso del pontificato di Papa Francesco, la strada della Chiesa. L’arcivescovo ha dotato la Diocesi di strutture pastorali di pregio, ha educato il suo clero alla fatica quotidiana dell’incontro e dell’ascolto, dell’accoglienza e della condivisione. Il suo magistero episcopale ultimo si concentra nella sintesi vitale della Cittadella della Carità. È il suo lascito fatto ai credenti e ai non credenti, ai preti come ai laici. Quel lascito tutti abbiamo il dovere di custodire e di rigenerare.
Con la lungimiranza e la saggezza che gli era da tutti riconosciuta il grande arcivescovo non fece della Cittadella un’opera diocesana. Non volle vincolare l’arcidiocesi alla gestione dei risvolti aziendali della Cittadella, né ipotizzò che vi fosse un coinvolgimento economico, organizzativo. La creazione della Fondazione Cittadella della Carità porta il segno della ecclesialità e della laicità insieme. Fu evento comunitario la costruzione della Cittadella in cui confluirono genialità e risorse del variegato mondo professionale, sindacale, culturale, ecclesiale di Taranto. Monsignor Motolese, però, volle tenere fuori la struttura giuridica della Diocesi, non l’affidò ai Vescovi suoi successori, perciò si pose alla ricerca di chi potesse agevolare la crescita e lo sviluppo della Cittadella. Dopo il primo periodo pioneristico sostenuto in gran parte dal volontariato occorreva dare una struttura più stabile dell’impeto di tante buone persone che dedicavano gratuitamente il tempo a quest’opera. Fece tante ipotesi, bussò a porte diverse, proprio perché questa sua creatura avesse spazi di autonomia e di libertà. Pensò ad una fondazione autonoma dalla diocesi nella proprietà e nell’esercizio della gestione. Diciamo grazie a quanti, in questo decennio, sono affiancati alla Cittadella per sostenerla. Oggi la diocesi, per evitare la cessione ad una rete di Istituti sanitari che ne avrebbe alterato l’identità, lasciando alla Cittadella e al Consiglio di Amministrazione, tutta intera la responsabilità finanziaria e gestionale, intende preservarne la natura con la sua autorità morale, ponendo come una delle condizioni indispensabili che nessuno dei dipendenti perda il posto di lavoro.
Ho voluto nei mesi passati che questo patrimonio di bene non fosse svenduto e smarrito ed è stato un segno di rispetto per la memoria e di amore per il territorio. La Cittadella deve camminare in autonomia, preservando l’identità originaria cristiana nel servizio alla salute, alle fragilità, alla malattia. Deve investire in innovazione e in formazione del personale medico e paramedico. La Fondazione non ha finalità economiche e di arricchimento; il patrimonio della Cittadella sono gli ospiti, le famiglie, gli operatori sanitari, le suore Missionarie del Sacro Costato, gli ammalati. Il Patrimonio della Cittadella è la carità che deve aprirsi a nuove potenzialità e a nuove forme. Patrimonio da rinverdire è il volontariato, ossigeno, delle nostre comunità. La laicità della Cittadella, cioè il fatto che essa non dipenda finanziariamente dalla Curia Diocesana, è rispetto della volontà manifesta del Fondatore, nella conquista di spazi di autonomia, di alta professionalità medica ed infermieristica, di leale e franco rapporto con le forze sindacali e con tutte le componenti di questa casa. Continueremo ad essere vicini alla Cittadella, a sostenerla, a stimolarla perché esprima in novità la sua vitalità e riesca a superare con tutte le forze in campo il difficile momento congiunturale che non dipende da noi e che abbiamo semplicemente ereditato.
L’evangelista Marco tramanda alla comunità cristiana l’obolo della vedova, lo fa diventare emblema di generosità, di dono. Quel gesto ci chiama a misurarci con la totalità che è racchiusa in quei “due spiccioli”.
Che la Cittadella possa contare su tanti autentici gesti evangelici. Che l’amato e indimenticabile Arcivescovo continui, per la Cittadella, sua e nostra, a bussare alla porta stessa di Dio, di Maria e dei santi venerati e invocati nella nostra Diocesi!
Il Signore benedica questa opera di amore “che fa onore al cuore di Taranto”, come disse qui in visita, San Giovanni Paolo II, il 28 ottobre1989. Sia lodato Gesù Cristo!
* Arcivescovo della Diocesi di Taranto