di Aldo Grasso*
Silvio Berlusconi era appena uscito dall’ospedale e su Rai3 andava in onda «Report» con un’inchiesta di Luca Bertazzoni dal titolo «Il Paese che amo». Qui non si discute di tempistica ma di metodo. Sigfrido Ranucci è libero di organizzare inchieste su Berlusconi ma, a quasi 30 anni dalla «discesa in campo», mi sarei aspettato un salto di qualità, un’analisi politica, insomma qualcosa degno della Rai, del servizio pubblico. E invece ecco l’incipit moralistico: «Berlusconi aveva tutti i diritti di diventare presidente della Repubblica, non lo è diventato perché ha inoculato nella società un modello di scorciatoie, uomo solo al comando, interessi personali, editti bulgari e fango sugli avversari». Poi si è parlato di «democrazia dell’audience», di Forza Italia come un «prodotto televisivo» e di Berlusconi professionista dello storytelling.
Il colpo grosso dell’inchiesta di Bertazzoni è stata una penosa intervista a Noemi Letizia di Casoria dove l’unica domanda che andava fatta alla signora era questa: «Scusi, ma i suoi genitori che parte hanno avuto in questa triste vicenda?». Il metodo Report, gestione Ranucci, lo conosciamo: c’è un teorema da dimostrare per rafforzare il quale si usano spezzoni d’intervista, interlocutori come Lele Mora (almeno sincero), un Emilio Fede malato, un agente delle olgettine, filmati rubati, intercettazioni telefoniche, cose del genere: «la tragicommedia del giornalismo complottista», com’è stato definito questo tipo d’inchieste. Quando Ranucci interveniva da studio, alle sue spalle appariva un ritratto di Mussolini. Perché non ci siano equivoci, non vorrei essere tacciato di berlusconismo: il servizio si è concluso con il ricordo di Biagi, Santoro e Luttazzi, martiri degli «editti bulgari». Nel 1994 anch’io fui fatto fuori da Berlusconi, per mano di Moratti Letizia di Milano. Non mi sono mai sentito un martire.