David Rossi il capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, venne trovato riverso senza vita sul selciato sottostante alla finestra del suo ufficio al terzo piano, in circostanze archiviate come suicidio, ma che fin da subito sollevano moltissimi sospetti. Era il 6 marzo 2013. Dopo oltre otto anni, nel luglio 2021, è stata istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta per far luce sul mistero legato a questa morte fatto passare frettolosamente come suicidio, ma suicidio non è stato.
Il giornalista Davide Vecchi, attuale direttore del quotidiano Il Tempo e delle testate del Gruppo Corriere e già autore nel 2017 di un precedente libro di successo sul caso “Il caso Davide Rossi”, è stato chiamato, unico giornalista in questo ruolo, a fare da consulente della commissione stessa. Nel suo nuovo libro, “La verità sul caso David Rossi“,di cui anticipiamo qui di seguito alcuni passaggi, Vecchi ha ricostruito tutto quello che ancora non si sapeva, grazie a testimonianze esclusive, perizie e documenti inediti. Quello che viene portato alla luce dalla sua inchiesta giornalistica puntuale e sconcertante, è che soltanto riaprendo il caso con l’ipotesi di omicidio si potrà evitare che quello sulla morte di David Rossi venga archiviato come l’ennesimo mistero italiano irrisolto dalla magistratura. Ecco un’anticipazione del suo libro in uscita oggi giovedì 7 aprile .
di Davide Vecchi
«Saranno state le ventuno circa, ricordo che ero a casa, avevo cenato con la mia famiglia e stavo sistemando la cucina, quando ho ricevuto una telefonata da parte di Livio Marini.» Alessia Baiocchi all’epoca dei fatti era vicequestore di Siena. Il 6 marzo 2013 non era di turno, ma fu contattata dal sovrintendente Marini che con la volante era arrivato nel vicolo Monte Pio. «Marini mi disse che si trovava lì per una segnalazione di suicidio e la persona che si era buttata dalla finestra era David Rossi.» Poi Marini aggiunge espressamente: «Comunque qui è presente sul posto il colonnello Aglieco che ha già preso in mano la situazione».
Dopo appena dieci minuti Baiocchi riceve un’altra telefonata, sempre da Marini. «Aglieco ha suggerito a noi della volante di andare all’esterno dell’ufficio di Rossi in modo che nessuno possa entrare.» E aggiunge: «Dottoressa, perché non viene, visto che abita qui vicino?». Il vicequestore prende la giacca e raggiunge vicolo Monte Pio. «Sarò arrivata sul posto intorno alle 21.30.»
I sanitari avevano appena terminato le operazioni di rianimazione, stavano mettendo via la strumentazione e nel vicolo, accanto al cadavere, non doveva esserci nessuno tranne il personale del 118, almeno stando a quanto finora saputo. Baiocchi, invece, racconta tutt’altra scena. «Ho visto subito il colonnello Aglieco, il colonnello Mortillaro, il maresciallo Cardiello.» Poi «la carabiniera Maria Amoroso, il tenente Cetola, il capitano Manichino. C’erano quattro o cinque ufficiali dell’Arma e una loro pattuglia, […] a un certo punto è venuto anche Grandini, all’epoca tenente colonnello: i carabinieri erano veramente tanti».
E la polizia, a cui spettava l’intervento? Non era lì. Marini e Gigli erano a piantonare l’ufficio al terzo piano dove li aveva mandati sin da subito Aglieco. Non basta, perché Baiocchi riferisce dettagli ancora più importanti. Uno in particolare: «Il colonnello Aglieco era nel vicolo ed era al di là del corpo di David Rossi». E con lui «c’erano il colonnello Mortillaro e il maresciallo Cardiello».
Sono le 21.30. Il vicolo non è transennato, nessuno ha ancora avvisato la polizia scientifica, e a ridosso, intorno e addirittura oltre il corpo di David, mentre i sanitari stanno mettendo via gli strumenti, ci sono tre uomini dell’Arma che non dovrebbero essere lì. Baiocchi va verso Aglieco perché è il più alto in grado e lui le comunica di aver «già sentito anche il questore Benedetti». Mentre Cardiello aggiunge di aver «chiamato il pm di turno, Nicola Marini».
L’operatività dei Carabinieri senesi è encomiabile. Chissà cosa fanno quando gli interventi spettano a loro. Peccato che quella sera si dimentichino di chiamare la scientifica. Ma del resto quando c’è un cadavere a terra a che serve? I rilievi sono un dettaglio. Il merito andrebbe attribuito per lo più al colonnello Pasquale Aglieco, perché lui quella sera si trovava lì per puro caso, non era in servizio ed era distante chilometri da casa. «Passavo di lì.»
Aglieco racconta sin da subito che quella sera aveva finito il turno e le sigarette, così in tuta era uscito per acquistarle e si era spinto a oltre tre chilometri dal suo alloggio di servizio. Mentre era al distributore automatico, dice, «vedo con la coda dell’occhio la volante e inizio a seguirla». Quindi arriva nel vicolo insieme a Marini e Gigli. Eppure, ricorda il primo, «io vidi che tentava di superarci, così l’ho bloccato per il braccio e si è qualificato come colonnello, dicendoci che l’uomo che era a terra morto si chiamava David Rossi ed era una persona importante perché capo della comunicazione di Mps, invitandoci a salire nel suo ufficio affinché controllassimo che nessuno vi entrasse». Non solo, Aglieco comunica ai due di allontanarsi senza preoccuparsi di lasciarlo solo, perché stava arrivando una radiomobile dei carabinieri.
Dunque, nonostante stesse comprando le sigarette e avesse casualmente visto e seguito la volante, Aglieco era a conoscenza sia delle generalità del cadavere sia dell’imminente arrivo dell’auto dell’Arma. E appena arriva nel vicolo prende il comando delle operazioni. Che spettassero alla polizia e lui fosse a riposo sono altri dettagli. Chiama il questore e i suoi uomini: prima l’allora maresciallo e oggi tenente dell’Arma Marcello Cardiello, che quella sera non era in servizio e si presenta in abiti civili; poi Edoardo Cetola, oggi maggiore dei carabinieri, anche lui fuori servizio e in abiti civili; infine Giuseppe Manichino, tenente, che quel giorno e quello precedente era addirittura in licenza e arriva sul posto, pure lui, in borghese.
Aglieco ne chiama altri. Fa avvisare da Cardiello il pm di turno, accoglie il vicequestore Baiocchi. Insomma, ha in mano la situazione. E quando il magistrato Nicola Marini arriva insieme ad altri due pm, Antonino Nastasi e Aldo Natalini, gli va incontro e fa praticamente gli onori di casa. O, meglio, di quella che sembra ormai la caserma da campo dei carabinieri. Sono tutti lì. Le operazioni spettavano alla polizia? Sì. È annotato anche nella scheda di intervento della volante di Marini e Gigli. Ma se n’è accorta solo la sala operativa dell’Arma, che riceve la telefonata di Mingrone alle 20.45 e avvisa la questura per passare appunto le consegne. La stessa Baiocchi, nel momento in cui arriva sul vicolo, vede un tale spiegamento di uomini dei carabinieri da credere che spetti a loro l’intervento. E quando, dopo oltre un’ora, viene avvisata, lo fa presente al pm di turno, Nicola Marini, sentendosi rispondere che non ha importanza, che ormai c’è l’Arma e dunque la polizia può occuparsi della rimozione del cadavere.
Alle 21.38 il centralino del 118 registra una telefonata, l’ultima di appena sei allegate e disponibili agli atti. «118 Siena, dica.» «Buonasera, sono il maresciallo Cardiello dei carabinieri, volevo chiederle se era possibile attivare il carro funebre per la rimozione salma in via Dei Rossi angolo via del Refe Nero.» Già, Baiocchi non fa in tempo a occuparsi neppure di quello. Perché nel frattempo dal vicolo era partito un vero e proprio corteo diretto verso l’ufficio di Rossi, in Rocca Salimbeni. E non trovando più nessuno intorno, lei si era allontanata per raggiungere il pm e sapere come dovevano operare. Salita al terzo piano trova Aglieco, sempre lui. I due, raccontano i testimoni, si incontrano all’ingresso dell’ufficio di Rossi e nasce un battibecco proprio sulle competenze dell’intervento. Il pm Marini se ne accorge, li raggiunge e dice a Baiocchi di allontanarsi da lì, tornare nel vicolo e occuparsi della rimozione del cadavere. Il vicequestore esegue. Andandosene si gira e si rivolge ad Aglieco: «Avete avvisato la scientifica?». «No.»
La chiama lei. Sono trascorse ormai quasi tre ore da quando David è precipitato. L’ufficio è già stato invaso da carabinieri e pm, così il vicolo. Addirittura l’efficientissimo Cardiello ha già chiamato il 118 per far rimuovere il cadavere, ma la scientifica non è ancora stata avvisata. «Sono stata contattata verso le 22.15 a casa e sono arrivata alle 22.50 sul posto. Prima ho fatto il sopralluogo a terra. Era già presente la rimozione salma, quindi sono stata proprio l’ultima a essere chiamata. Alle 23.30 ho terminato il sopralluogo in Monte Pio.» Sul posto interviene Federica Romano, assistente capo coordinatore della polizia di stato. Quando lei arriva, il cadavere è già stato preparato nel sacco bianco della mortuaria per il trasporto. Per scattare le foto devono liberarlo e riadagiarlo sul selciato.
La scientifica è l’ultima a essere chiamata ed è l’ultima a lasciare il vicolo. Dalle 23.30 in poi in quella stradina lunga appena ventotto metri e larga dai tre ai cinque metri non c’è nessuno. Resta un furgone parcheggiato sul lato sinistro poco dopo l’imbocco e uno scooter parcheggiato sin dal mattino contro il muro che chiude la strada, quindi oltre il punto dove è caduto Rossi. Quando se ne vanno le forze dell’ordine, inizia il viavai di curiosi e passanti. Del resto lì è appena stato trovato il cadavere di un personaggio a dir poco noto in città e la voce si diffonde rapidamente. Un carabiniere rimane all’imbocco del vicolo ma per un’ora, forse meno. Perché poco dopo mezzanotte arriva il proprietario dello scooter, Emanuele Dragoni.
Dragoni è un dipendente della banca. Si occupa di manutenzione. Ogni giorno parcheggia il motorino lì, in fondo al vicolo. Lo fa anche quel 6 marzo. «Sono uscito dal lavoro nel pomeriggio ma poi sono andato in palestra. Quando sono tornato per riprenderlo dopo le ventidue ho visto i carabinieri e un collega lì presente, mi ha spiegato cosa era accaduto, così me ne sono andato a casa della mia fidanzata.» Passano due ore, però, e torna per riprovare a prendere lo scooter e tornare a casa propria. «A mezzanotte circa sono andato di nuovo e ho potuto recuperare la moto perché lì non c’era nessuno.»
Si erano trasferiti tutti in Rocca Salimbeni, nell’ufficio di Rossi. Carabinieri, magistrati. Una dozzina di persone era dentro quella stanza. Tranne chi avrebbe dovuto esserci realmente e avrebbe dovuto entrare prima di tutti: la polizia scientifica. Che invece potrà accedervi solo alle 00.45. Come nel vicolo, anche nell’ufficio la dottoressa Romano arriva per ultima. Tutti nell’ufficio di Rossi. Ciascuno a fare il proprio mestiere.
«La carenza di dati disponibili relativamente al sopralluogo nell’ufficio di David Rossi e nella sede del rinvenimento del cadavere, nonché all’autopsia (sia per quel che riguarda il rilievo, la descrizione e la datazione delle lesioni oltre che alla repertazione di elementi utili per la ricostruzione delle dinamiche dell’evento mortale), impongono l’esumazione del cadavere e un sopralluogo.»
È il 16 marzo 2016 ed è tutto da rifare. A tre anni di distanza dalla scomparsa del manager Mps, l’indagine affidata al pm Andrea Boni certifica quanto si sapeva sin da settembre del 2013 ed era scritto nell’opposizione alla prima archiviazione depositata dall’avvocato Goracci: i pm Marini e Natalini non avevano svolto alcun tipo di accertamento e quel poco che erano stati costretti a fare, come l’autopsia, era risultato superficiale e pieno di errori e omissioni. Boni ha tentato di fare il suo mestiere, cercare la verità, e si è scontrato con le voragini investigative di chi l’ha preceduto. È grazie alla sua tenacia, ad esempio, che si è scoperta la distruzione dei fazzolettini.
Il perito nominato dal magistrato trova negli atti del primo fascicolo l’elenco degli oggetti repertati e ne chiede l’acquisizione. Tra questi, i sette fazzoletti di carta sporchi di sangue rinvenuti nel cestino dell’ufficio. Sono disponibili, dicono le carte. Quindi fa richiesta per analizzarli, ma nessuno risponde. Lui insiste, gli uffici tergiversano. Quei fazzoletti sarebbero fondamentali, perché i periti ipotizzano a ragione che siano stati usati per tamponare le ferite al volto, non i taglietti al polso vecchi di due giorni, come invece hanno sostenuto sin da subito gli inquirenti. Boni vuole analizzarli, sono indicati tra i reperti conservati, eppure pare non esistano. Dopo varie insistenze e richieste ufficiali, sulla sua scrivania arriva un fogliettino striminzito: è l’atto con cui nell’agosto del 2013 Natalini ne aveva disposto la distruzione. Quindi niente fazzolettini e nessuna analisi: non era stata fatta. E niente celle telefoniche o tabulati: non sono stati acquisiti né ora si possono acquisire. Troppo tardi, sono andati distrutti.
Sempre Boni scopre che la banca più antica del mondo non aveva i registri degli ingressi nella sede. Scopre inoltre che il portiere Riccucci, sentito più volte per sapere come mai non avesse visto sui monitor David agonizzante per ventidue minuti, ha una memoria a dir poco inaffidabile e fornisce spiegazioni incredibili. Un esempio? Boni gli chiede una cosa semplice: «Ma lei come faceva la sera a sapere che tutti erano usciti dalla banca e chiudere?». Risposta: «Spegnevo le luci e se c’era qualcuno mi chiamava per farsele riaccendere».
Il pm però non si lascia sopraffare dallo sconforto. Prende coscienza che va rifatto tutto dall’inizio, così nomina due consulenti tecnici scegliendoli ben distanti da Siena, città piccola in cui tutto ha ruotato e ruota attorno al Monte: chiunque qui ha collegamenti diretti o indiretti con la banca. Il pm si rivolge a Cristina Cattaneo dell’istituto di medicina legale dell’Università di Milano e al tenente colonnello Davide Zavattaro del Ris, il reparto investigazioni scientifiche dei Carabinieri. Il quesito che pone loro è chiarissimo: la morte di David Rossi è suicidio o omicidio?
Dopo meno di un mese, il 6 aprile 2016, il corpo viene riesumato e portato in laboratorio per l’analisi della dottoressa Cattaneo, mentre la simulazione della caduta è fissata per il successivo 25 giugno: serve più tempo perché è necessario reperire un manichino con la stessa corporatura di Rossi, altrimenti sarebbe inutile.
Inoltre il perito di parte, Luca Scarselli, ha compiuto un’analisi talmente accurata dell’unico video disponibile, da aver ricostruito la dinamica della caduta, la velocità dell’impatto al suolo, la posizione del corpo mentre precipita e una serie di elementi che Boni vuole verificare e comprendere in maniera approfondita. Non ha intenzione di lasciare dubbi, tenta di arrivare a scrivere e certificare la verità.
È evidente agli stessi periti della procura quanto strana sia la postura di David mentre precipita: a sacco di patate, piegato in due, con gli arti rivolti verso l’alto, come fosse caduto già privo di sensi. C’è poi un altro elemento fondamentale: l’oggetto che cade venti minuti dopo David. Secondo Scarselli si tratta del suo orologio. Qualcuno lo ha buttato dalla finestra a diversi minuti di distanza. Possibile? Di certo sul polso del cadavere viene trovato un ematoma perfettamente sovrapponibile alla cassa del Sector, così come è certo che l’orologio viene rinvenuto distante dal corpo e con le lancette che segnano le 20.10, non le 19.44, ora in cui David ha impattato sul selciato. Dal video, inoltre, è evidente che Rossi cadendo non ha sbattuto le braccia a terra e ha persino le maniche della camicia abbassate con i polsini allacciati. Anche questo è strano. E anche sull’orologio Boni vuole fare tutti gli accertamenti possibili.
La Procura di Milano ha un manichino perfetto per la simulazione della caduta: è quello utilizzato nel 1971 per ricostruire il volo fatto da Giuseppe Pinelli dal quarto piano della questura milanese, la notte del 15 dicembre 1969, un altro suicidio decisamente particolare. Tutto sembra procedere in maniera spedita. Ma il 21 aprile 2016 Boni riceve la comunicazione del suo trasferimento, ad appena un anno dal suo arrivo. Un notevole avanzamento di carriera: il ministero di Giustizia lo ha nominato procuratore capo di Urbino, accettando con rapidità sorprendente la richiesta che aveva presentato prima di avere il fascicolo Rossi, e dovrà prendere servizio a fine giugno.
L’indagine deve dunque passare di mano. Viene affidata a un nuovo pm, Fabio Ghiozzi. Se ne occuperà insieme al procuratore capo Salvatore Vitello, che decide di farsene carico. Il loro primo provvedimento è del 13 giugno 2016: danno disposizione ai vigili del fuoco e ai carabinieri di predisporre tutto ciò che è necessario a Zavattaro del Ris per le operazioni da compiere il 25 giugno. I rilievi durano sette ore e mezzo. Vengono prelevati oltre trenta reperti dalla parete esterna dell’ufficio. Altri dall’interno. La simulazione della caduta però non viene effettuata. O meglio, si decide di non usare il manichino ma di eseguire delle prove con un vigile del fuoco provvisto di imbracatura. L’uomo tenta di ripetere la ricostruzione fatta dai pm nell’archiviazione accolta dal gip Gaggelli e di inscenare l’ipotesi dei legali. Ma sollevarlo e spingerlo fuori dalla finestra non appare semplice, anche perché non è esattamente della stessa stazza di David, tutt’altro: né altezza né peso corrispondono. Per riuscire ad arrampicarsi senza sfondare il fan coil – come avrebbe fatto Rossi secondo chi ne ha decretato il suicidio – il pompiere deve aggrapparsi a una corda appositamente collocata sul battente della finestra per la simulazione.
Il vigile del fuoco inoltre tenta di imitare la dinamica reggendosi al davanzale con il volto rivolto alla parete ma, se si fosse lasciato andare, il corpo avrebbe sbattuto contro il muro, avrebbe ruotato e non sarebbe caduto perpendicolare né sarebbe atterrato con braccia e gambe rivolte verso l’alto. Poi i dubbi, sempre più numerosi, sulle ferite: sotto le ascelle e sulle braccia di Rossi l’autopsia ha accertato ematomi. Secondo i periti di parte dei famigliari erano frutto di «costrizioni» e «afferramento» da parte di terzi. Secondo i pm Marini e Natalini, invece, erano stati causati dal davanzale al quale Rossi si sarebbe aggrappato prima di lanciarsi nel vuoto. La simulazione ha accertato che nulla sulla finestra o all’esterno poteva in alcun modo lesionare gli arti come accaduto al manager.
Al termine delle operazioni gli sguardi sconsolati dei vigili del fuoco dicono tutto. Loro ci hanno provato a fare ciò che è stato chiesto, ma si è rivelato impossibile. Come è stato impossibile cercare tracce utili sui reperti a distanza di trentanove mesi di pioggia, neve, passaggi di persone, auto. Le indagini chiedono addirittura di individuare parti di Dna, ma trovare indizi seppur minimi è pura utopia dopo tutto quel tempo. L’unica certezza sembra essere il buco nero delle indagini iniziali.
(si ringrazia l’editore Chiare Lettere)