In quanti modi può piombarti addosso il buio? Marco Intravaia, figlio di Domenico, vicebrigadiere monrealese dei carabinieri, morto a Nassirya, lo conobbe così. “Andavo al liceo, avevo quindici anni e mezzo. Ero in classe. Alla mia compagna di banco arrivò un sms con il flash di un notiziario che riportava la notizia di un attacco a un contingente italiano. Ebbi come un presentimento e telefonai a casa. Mi rispose un parente che non aveva motivo di essere lì. Capii tutto”.
Quello che per altri è cronaca, storia, per te è famiglia che si lacera, separazione con cui farai i conti in eterno. Per gli altri è solo un flash, per te è il volto amato di un padre che non rivedrai. Era il 12 novembre del 2003, quindici anni oggi. Un camion cisterna carico di esplosivo fu scagliato contro la base “Maestrale” di Nassirya in Iraq. Morirono dodici carabinieri, cinque militari e due civili e non solo loro. Per gli altri è la nota di un telegiornale che dura pochi minuti e lascia il suo sgomento per un po’. Per te è l’esistenza che cambia, qualcosa che si rompe, che non si aggiusterà.
Marco è cresciuto con la sua solitudine, con lo strazio dei suoi, seminando azioni responsabili e speranze, fino a diventare grande. Ora può dire di avercela fatta, nonostante il peso: “Sono stati anni durissimi, caratterizzati da un dolore immenso con le difficoltà che la vita ti propone ogni giorno. Ma tutti noi li abbiamo affrontati con dignità, con la schiena dritta”. Giorni di calendari strappati, aspettando un ritorno, che diventavano lapidi per tutti i familiari delle vittime.
“Mio padre ha servito umilmente il Paese – insiste Marco Intravaia – pur sapendo dei gravi rischi che correva. Lo ha fatto senza nessuna esitazione, rimanendo fedele al giuramento prestato alla Repubblica; con orgoglio, quello stesso orgoglio con il quale aveva deciso di arruolarsi ed indossare una divisa, di difendere la nostra Nazione dalla piaga del terrorismo. Mi ha lasciato un’eredità morale pesante. Mi ha insegnato che, se si vogliono cambiare le cose, si deve avere il coraggio dell’impegno in prima persona”.
Ma non è stato facile, né poteva esserlo. “No, non lo è stato. Nassirya ha rappresentato una ferita atroce, non solo per me, per tutti. Una strage di proporzioni enormi che ci ha segnato. Quella mattina sono venuti a prendermi a scuola. A casa ho trovato i Carabinieri, i colleghi, i compagni e gli amici di papà. Chiunque può immaginare quelle ore. Ti senti protagonista di un incubo, di un film, vivi tutto come se fosse una allucinazione. Siamo andati da un posto all’altro: la camera ardente, i funerali, sempre con quel senso di incredulità…”.
La didascalia delle mutilazioni. La rarefazione delle lacrime che confonde, mescolandosi all’adrenalina: sta capitando a me, davvero sta capitando a me? Poi ti ritrovi a cena con i tuoi, qualche tempo dopo. E ripiomba il buio. “E’ andata proprio così – racconta Marco -. Ci guardavamo in faccia, la sera, a casa, io, mia madre e mia sorella. Mi sono rimboccato le maniche per per sorreggerle. Il crollo viene, non lo eviti, ma è l’amore che ti permette di non cedere”.
Marco, chi era Domenico, il tuo papà? “Un uomo tanto irreprensibile e severo in servizio, quanto dolce, giocherellone e allegro in famiglia. Organizzava feste, rideva sempre. Ogni volta che vedo una divisa dei Carabinieri mi emoziono, è come se potessimo abbracciarci ancora”. E nella voce che, di colpo, si incrina al telefono, adesso sono due. Il figlio che non ha mai smesso di amare. Il padre che non è mai andato via.
*ricordo-intervista tratto dal quotidiano online LiveSicilia