ROMA – Aditya Mittal, è il figlio 41enne di Lakshmi Mittal, fondatore e Ceo di ArcelorMittal, colosso industriale dell’acciaio. “Nato nel 2006 dalla fusione tra Arcelor e Mittal steel company – si legge sul Sole 24 Ore -, ArcelorMittal è oggi il maggiore produttore di acciaio al mondo, con una presenza in 60 paesi, 209mila dipendenti e un output che l’anno scorso ha superato i 90 milioni di tonnellate. La maggior parte del fatturato europeo è realizzato sul mercato tedesco (18%), seguito dalla Francia (13%), dalla Spagna (11%) e dalla Polonia (10%); in Italia oggi ArcelorMittal fattura l’8% del dato complessivo europeo”. Erano questi i numeri della multinazionale indiana, prima dell’ acquisizione del gruppo ILVA,
Era l’11 ottobre 2017 quando nel corso del forum di Conftrasporto Aditya Mittal, cfo di ArcelorMittal e Ceo del gruppo in Europa, prendendo la parola pronunciò queste parole “L’Ilva è una sfida non facile, ma io sono giovane e sono qui per rimanere nel lungo termine e portare avanti con successo questo nel lungo termine”. Ad ascoltarlo fra il pubblico il premier (in carica all’epoca dei fatti) Paolo Gentiloni ed il ministro della difesa Roberta Pinotti. Entrambi esponenti di punta del Pd.
“Nel business dell’acciaio si tratta gestire gli stakeholder, i dipendenti, il business, vanno tutti gestiti – sottolineava Aditya Mittal – l’industria dell’acciaio è molto importante all’interno di una comunità perché ha un impatto importante su tante cose, sui tanti posti di lavoro e quindi dal punto di vista economico e strategico riveste un’importanza di grande rilievo e noi – disse ancora il giovane Mittal – ci prendiamo questa responsabilità molto seriamente, è qualcosa che noi sappiamo che dobbiamo gestire su base quotidiana e sui cui dobbiamo eccellere”.
L’Ilva, continuò il “giovane” rampollo della famiglia Mittal, “ha sofferto moltissimo nel corso degli ultimi anni, si è visto soffrire i dipendenti per via delle incertezze del suo futuro, si è vista la sofferenza dell’operatività che non è migliorata, anzi c’è stato un declino della produzione su base annuale. E, ancora più importante, abbiamo visto una comunità che ha largamente e fortemente sofferto per via di tutti i problemi ambientali che conosciamo”. “C’è stato un non rispetto ambientale di tutte le comunità dove si trova ILVA – proseguì il cfo del gruppo ArcelorMittal – Il nostro lavoro è prima di tutto migliorare queste condizioni. Come possiamo noi gestire un business in maniera adeguata, giusta, come possiamo assicurare che ci occuperemo degli stakeholder e dell’ambiente”. Parole rassicuranti, o meglio di disponibilità al dialogo, quelle pronunciate dai vertici del gruppo Mittal in occasione del convegno a Cernobbio, che però non convincevano del tutto din d’allora gli esponenti del Governo.
Quelle parole del Ceo di ArcelorMittal arrivarono all’indomani della frenata del governo sugli accordi sottoscritti dai commissari ILVA. “Non possiamo, come governo, accettare alcun passo indietro – disse l’ex ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda – su retribuzioni e scatti di anzianità acquisiti che facevano parte degli impegni” nel suo intervento ben poco “tecnico” e molto politico, venendo sostenuto anche dalla ministra della Difesa Pinotti e dallo strano silenzio assenso di Gentiloni,
Quell’interno non ebbe opposizione di Palazzo Chigi così come la porta chiusa che venne annunciata da Carlo Calenda, che aveva criticato la cordata Am Investco (composta dal gruppo Arcelor Mittal e dal Gruppo Marcegaglia): “Non possiamo, come governo, accettare alcun passo indietro su retribuzioni e scatti di anzianità acquisiti che facevano parte degli impegni”, ha detto Calenda, sconfessando implicitamente gli accordi sottoscritti dai commissari Ilva Gnudi, Carrubba e Laghi, che avevano reso noti i livelli occupazionali complessivi – pari a 10.020 unità – che Arcelor Mittal intendeva mantenere e la loro distribuzione impianto per impianto che, per Taranto in particolare, prevederebbe un organico di 7.600 addetti – con una importante riduzione di ben 3.311 unità – ed a Genova di 900 unità con una diminuzione di alcune centinaia di addetti.
La decisione di Calenda era arrivata con il silenzio-assenso della Presidenza del Consiglio (il premier era Paolo Gentiloni – n.d.r.), sollecitata in particolare modo dal ministro della Difesa, Roberta Pinotti, attenta in particolare alle ricadute su Genova, dove ha sede uno degli impianti Ilva rilevati dagli indiani di Mittal oltre a quello di Taranto. Queste le parole più significative pronunciate dalla Pinotti, prima dell’annuncio di Calenda: “Il governo sta al fianco delle preoccupazioni dei lavoratori e non certo dall’altra parte”.
Quella frase di Pinotti era stata la dichiarazione di “guerra” contro il gruppo indiano , secondo quanto riportato da Repubblica, Stampa e Secolo XIX, che, dopo aver indicato meno esuberi rispetto al passato per effetto anche del pressing governativo, ha detto che non garantiva livelli salariali e scatti di anzianità del passato. Ma non solo. Infatti la Pinotti era andata anche oltre, preannunciando una ulteriore “pressione” anche rispetto agli esuberi indicati: “Noi vogliamo lavorare per diminuire il numero degli esuberi e per rivedere le condizioni che possono essere peggiorative dal punto di vista dei lavoratori”.
Molti addetti ai lavori scommettevano a suo tempo su un potenziale intervento della Cassa depositi e prestiti sul “dossier” nel caso il Governo decidesse di nazionalizzare. Si vedrà. Ma c’è un dato politico che emerge dalla vicenda Ilva: la sintonia fra Gentiloni, Pinotti (democratici al 100% ), Calenda (riformista non troppo renziano) e della “fedelissima” alla ortodossia renziana Teresa Bellanova che all’epoca dei fatti era viceministro allo Sviluppo economico. Si parlava di siderurgia, certo, ma anche quella volta, come ora di elezioni prossime venture…
Aveva quindi ragione il prof. Federico Pirro quando a suo tempo sosteneva che sarebbe stato “un grave errore considerare la trattativa che doveva avviarsi oggi come una delle tante aperte al tavolo del Mise per fronteggiare situazioni di crisi aziendali, non solo perché stiamo discutendo del maggior gruppo siderurgico italiano e della più grande fabbrica manifatturiera del Paese” – che è lo stabilimento siderurgico di Taranto con i suoi 10.980 occupati diretti – “ma perché la questione del riassetto della Ilva, e di conseguenza della siderurgia italiana, è tuttora una grande questione nazionale. Se lo ricordino tutti“.
In realtà, gli assetti occupazionali previsti per Taranto avevano come punto di riferimento – per quel che concerne la produzione – quanto stabilito nel Decreto del presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017, pubblicato in Gazzetta ufficiale del 30 settembre, recante il “Piano delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria”. All’articolo 2 di quel decreto si stabiliva che la produzione dello stabilimento dell’ILVA di Taranto non avrebbe potuto superare le 6 milioni di tonnellate all’anno di acciaio fino al completamento di tutti gli interventi previsti per l’Aia, la cui scadenza è fissata al 23 agosto 2023, fatte salve le diverse tempistiche espressamente previste negli allegati I e II del Dpcm. 6 milioni di tonnellate che ora gli Arcelor Mittal vorrebbero far scendere ad appena 4.
Am Investco si era impegnata a raggiungere la soglia dei 6 milioni di tonnellate di acciaio liquido entro il 2018 e a mantenere tale livello sino alla completa implementazione del piano ambientale alla data del 23 agosto 2023. Entro il 2020 si giungerebbe a 8,5 milioni di tonnellate di spedizione di prodotti finiti con la lavorazione di bramme provenienti da altri siti di Arcelor Mittal. Un cambiamento che legittimale affermazioni di chi oggi accusa il “top management” di Arcelor Mittal di aver sbagliato il proprio piano industriale, o come altri sostengono di aver barato al tavolo della gara e successiva trattativa dopo l’aggiudicazione.
Vi era allora un primo elemento su cui il prof. Pirro invitava a riflettere: fissare al 23 agosto del 2023 il completamento degli interventi per l’Aia non ha significato spostarlo in un futuro troppo remoto? Quel termine, qualora venisse rispettato, ricadrebbe nella legislatura del nostro Parlamento iniziato nella primavera del 2018. “Le esperienze degli ultimi decenni” – aggiungeva Pirro – “ci dicono che in sei anni possono sconvolgersi gli equilibri economici mondiali e di conseguenza la produzione di acciaio. Perché allora non introdurre una modifica al Dpcm che anticipi la conclusione dell’Aia dal 23 agosto del 2023 al 31 dicembre del 2019? O questa anticipazione creerebbe difficoltà alla cordata Am Investco?“
Far dipendere il sito di Taranto da un 25-30% di importazione di bramme significherebbe privarlo di quell’autonomia produttiva che esso ha sempre avuto dalla sua impostazione impiantistica originale. Era evidente sin d’allora una persona intelligente e preparata come il prof . Pirro che il gruppo Arcelor Mittal volesse integrare il sito ionico nel suo sistema di produzione europeo. Ma nessuno al Governo si chiese se tale integrazione rispondeva pienamente alle esigenze e alla redditività di quel sito e agli interessi siderurgici del nostro Paese. Si domandava Pirro “se non sarebbe più conveniente per la stesso gruppo Arcelor conservare intatta – dopo tutti gli interventi di ambientalizzazione – la capacità produttiva di Taranto, che una volta risanata, dispiegherebbe una potenza competitiva fra le maggiori in Europa, essendo tuttora quello tarantino il primo stabilimento nella Ue per capacità installata?“
Ecco quindi un primo elemento su cui riflettere: fissare il completamento degli interventi per l’Aia al 23 agosto del 2023 non ha significato spostarlo in un futuro troppo remoto? Si pensi in proposito che quel termine, se rispettato, cadrebbe nella legislatura del nostro Parlamento successiva alla prossima, che inizierà nella primavera del 2018. Ma le esperienze degli ultimi decenni ci dicono che in sei anni possono sconvolgersi gli equilibri economici mondiali e di conseguenza la produzione di acciaio. Perché allora non introdurre una modifica al Dpcm che anticipi la conclusione dell’Aia dal 23 agosto del 2023 al 31 dicembre del 2019? O questa anticipazione avrebbe creato delle difficoltà alla cordata Am Investco (ora Arcelor Mittal Italia) ?
Un’altro quesito che del prof. Pirro, quanto mai di attualità nei nostri giorni era quello relativo alle aziende dell’indotto che a Taranto costituiscono – ma pochi lo sanno e ricordano – il più grande raggruppamento di imprese impiantistiche del Sud, insieme a quello del polo petrolchimico di Augusta e Priolo in Sicilia. Perchè vengono coinvolte nelle attività dello stabilimento dalla nuova proprietà, che poi non le paga ? Il silenzio ufficiale sull’argomento è assordante, così come sono assordanti nelle ultime ore le futili motivazioni dell’ Ad Lucia Morselli (che prima o poi dovrà chiarire i suoi intercorsi rapporti con Di Maio quando era ministro dello Sviluppo Economico) per le quali ad oggi Arcelor Mittal ha cumulato debiti nei confronti dell’indotto per circa 60 milioni di euro.
Certo, quelle aziende avrebbero dovuto e potuto diversificare le loro attività, riqualificarsi, aggregarsi, spostarsi su altri mercati anche esteri, ove potrebbero – con il sostegno del nuovo Ice, del ministero degli Esteri e di grandi gruppi pubblici e privati presenti in certe aree – acquisire in logiche di mercato commesse anche di rilevanti dimensioni, purché eseguibili in gruppi integrati. Ma non lo hanno fatto preferendo restare aziende “mono ILVA“, che è la ragione per cui in queste ore rischiano di dover portare i libri in Tribunale, se il gruppo franco-indiano non dovesse onorare i propri debiti.