di Giuliano Ferrara
Non è notizia ordinaria l’arrivo di Piercamillo Davigo alla guida dell’associazione dei magistrati. Dall’anno culmine delle inchieste milanesi contro la corruzione è passato quasi un quarto di secolo. La reviviscenza nello spazio pubblico di uno dei capi del pool di Borrelli e Di Pietro, il suo insediamento alla guida della categoria dei pm, qualcosa significa. Renzi ha ridotto il potere di sindacati e Confindustria, ha ridimensionato le vecchie nomenclature politiche della sinistra, ha colpito di striscio la piramide della burocrazia, ma la magistratura organizzata e militante è sempre lì, in forme diverse e con strategie di ruolo diverse, a presidiare il territorio della politica.
Davigo è la figura giusta per spiegare il fenomeno. Non è come formazione un magistrato di sinistra. Non è un ambizioso carrierista politico. Non è mai stato in ballo come portabandiera, come parlamentare, come sindaco, come ministro, come capo partito. In questi lunghi anni sono stati altri a gridare il loro “resistere resistere resistere“, altri a imbrancarsi nei gruppi parlamentari, altri a proporsi come ministri e leader più o meno telegenici, altri a correre da sindaco o a organizzare partiti. Mentre i Di Pietro, gli Ingroia, i De Magistris e numerosi apparentati giravano sulla giostra, il dottor Davigo compiva la sua carriera professionale di vincitore di concorso.
Ora la sua elezione, e il suo stesso discorso di insediamento sul rapporto tra magistrati e governo, ha tutto il sapore di una chiamata in servizio. Davigo è il grande riservista di cui c’è bisogno in un momento difficile della guerra intorno alla giustizia e alla politica. Il trattamento di Renzi “alla Berlusconi” non è impossibile, attraverso le intercettazioni e la grancassa mediatica puoi sputtanare chi e come vuoi, ma tutto è più complicato. I ministri investiti dalle indagini per piccoli e grandi sospetti di malaffare oggi si dimettono senza nemmeno discutere, l’impronta del potere esecutivo non è quella della resistenza a un assedio, i membri del governo si fanno convocare in quattro e quattr’otto, rispondono alle domande, non sollevano obiezioni di impedimento, l’aura della congiura e della difesa da una congiura non attecchisce.
Ecco che bisogna recuperare una specie di deontologia della politica d’attacco della magistratura, affidare il conflitto a un uomo di legge che può far conto su una reputazione di neutralità tecnica. Davigo non è affatto uno stupido e alla lunga si è rivelato come un togato tenace più di chiunque altro nella difesa del suo ruolo e del suo gioco di ruolo. Può anche essere che voglia ridimensionare, ricalibrare, rimettere con i piedi per terra e la testa in aria gli astratti furori che hanno portato tanti come lui a uno scontro belluino con i politici eletti. Ma non ne sarei tanto sicuro.
Lo ricordo come un ideologo aspro e intransigente non solo e non tanto della legalità, che è la materia degli uomini di legge, ma del “controllo di legalità“, che è l’ideologia della supplenza istituzionale e politica delegata alle procure nel passaggio traumatico da una Repubblica dei partiti a un’altra forma di stato restata per lo più indefinita. Staremo a vedere, ma non scommetterei un soldo bucato sulla sua disponibilità a limitare il prepotere della sua categoria e sulla sua indisponibilità a favorire il partito dei giudici come supplenti della politica. Nemmeno ora, nemmeno con una classe dirigente tanto cambiata dai fatti e dal tempo.
- editoriale tratto dal quotidiano Il Foglio