La legge è uguale per tutti: vacanza cara per il finanziere che ha un lampeggiante (che non può avere) sull’auto… L’appartenente alle forze dell’ordine che, fuori dai casi di servizio, detenga sull’auto un dispositivo lampeggiante a luce blu, è responsabile del reato di possesso di segni distintivi contraffatti per disporre di segni idonei a trarre in inganno la società circa la qualità del soggetto detentore.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALEPresidente Lombardi
Relatore SettembreHa pronunciato la seguente :
Sentenza n. 32964 dep. il 24 luglio 2014Ritenuto in fatto
1. La Corte d’appello di Reggio Calabria, con sentenza del 19/2/2013, a conferma di quella emessa Giudice dell’udienza preliminare del locale Tribunale, all’esito di giudizio abbreviato, ha condannato P.A. per il reato di cui all’art. 497/ter cod. pen., per aver illecitamente detenuto un dispositivo lampeggiante di colore blu, del genere di quelli in uso alle Forze di polizia.
2. Contro la sentenza suddetta ha proposto personalmente ricorso per Cassazione l’imputato per violazione di legge e vizio di motivazione. Sostiene che il dispositivo era legittimamente detenuto, in quanto, come appartenente alla Guardia di Finanza, era abilitato all’uso dello stesso senza limitazioni di sorta, siccome permanentemente in servizio, data la sua qualità di pubblico ufficiale (nonostante si trovasse in vacanza in (…)). Inoltre, che non è possibile parlare, nella specie, di illecita detenzione, posto che è tale solo quella non sorretta da validi titoli giustificativi, mentre quello da lui detenuto era stato acquistato attraverso un canale web autorizzato. Evidenzia, in ogni caso, che il dispositivo era spento. Contesta, infine, l’esistenza del dolo.Considerato in diritto
Il ricorso è infondato.
1. L’art. 497/ter cod. pen. punisce, tra l’altro, chiunque “illecitamente detiene segni distintivi, contrassegni o documenti di identificazione in uso ai Corpi di polizia, ovvero oggetti o documenti che ne simulano la funzione” (comma 1, n. 1).
Nella struttura della fattispecie sono compresi, quindi: a) la detenzione di oggetti che identificano un corpo di polizia o ne simulano la funzione; b) la illiceità della detenzione. Il primo requisito è di intuitiva evidenza: vi rientrano tutti i segni, contrassegni, documenti od oggetti che rimandano, inequivocabilmente, ai corpi di polizia, perché li identificano nel sociale o costituiscono strumenti attraverso cui si esplica la funzione ad essi demandata (divisa, distintivo, paletta di servizio, ecc). Deve trattarsi, cioè, di elementi che portano il quivis de populo ad identificare il portatore o detentore come soggetto appartenente a forze di polizia o esplicante una funzione di polizia.
Il secondo requisito è integrato dalla “illiceità” della detenzione, che ricorre ogniqualvolta la detenzione non sia sorretta da un valido titolo di legittimazione. È “illecita”, quindi, non solo la detenzione acquisita attraverso la commissione di un reato (nel qual caso il reato di cui all’art. 497/ter concorre con quello – per esempio: furto o ricettazione – che ha determinato la detenzione), ma anche quella che avviene sine titulo, perché riservata a soggetti specificamente individuati dall’ordinamento. Sebbene la rubrica dell’articolo parli, infatti, di “possesso di segni distintivi contraffatti”, non è l’autenticità degli oggetti che viene tutelata dall’ordinamento, ma la riserva alle forze di polizia dei segni e degli oggetti che identificano queste ultime, perché attraverso di essi avviene il riconoscimento del personale investito della funzione. Tanto si desume: sia dalla collocazione sistematica dell’art. 497/ter cod. pen. nel capo IV del titolo VII, intitolato alla “falsità personale”; sia dal fatto che la “contraffazione” (sotto forma di fabbricazione o formazione) è oggetto della specifica (e aggiuntiva) previsione contenuta nel n. 2 dello stesso articolo, al comma 1; sia, infine, dalla ratio ispiratrice della norma, introdotta dall’art. 1/ter della L. 21 febbraio 2006, n. 49, che ha modificato, con previsione aggiuntiva, l’art. 10/bis del decreto legge n. 144 del 2005, conv. in legge n. 55 del 2005, ossia il decreto contenente norme urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale, ed ha inteso punire la detenzione (oltre alla fabbricazione e all’uso) di segni distintivi di corpi di polizia, sul presupposto della potenziale strumentalità di tale condotta rispetto alla consumazione di delitti terroristici.
Orbene, nel caso di specie il P. è stato fermato mentre circolava con una vettura sul cui tettuccio era stato collocato un dispositivo lampeggiante a luce blu, normalmente in uso – anche se non esclusivo – alle forze in servizio di ordine pubblico. Trattasi di un “oggetto”, quindi, che, allorché usato, esonera dall’osservanza degli obblighi, dei divieti e delle limitazioni relativi alla circolazione stradale e porta a identificare il suo detentore con un soggetto in servizio di ordine pubblico; un oggetto, quindi, che era idoneo a trarre in inganno i cittadini sulle qualità personali di chi lo deteneva e sul potere connesso all’uso dello stesso. E l’accertamento della sua idoneità ingannatrice rappresenta un giudizio di merito che – per essere sorretto da logica motivazione – non è censurabile in Cassazione.
2. Nella specie, il dispositivo non era lecitamente detenuto. Il ricorrente insiste sul fatto che, essendo in servizio alla Guardia di Finanza, era abilitato all’uso e alla detenzione del lampeggiante senza limitazioni di sosta, perché “in servizio permanente effettivo”. Senonché, la nozione di “servizio permanente” è diversa da quella di “esercizio delle funzioni”, implicando essa che il pubblico ufficiale può in ogni momento intervenire per esercitare le sue funzioni, ma non che egli le stia concretamente esercitando in ogni momento (Cass., n. 38735 del 9/7/2004; Cass., n. 21730 del 17/4/2001). Dal che consegue che il P. , come correttamente argomentato dai giudici di merito, essendo in vacanza in (…), fuori della sua sede di servizio, e non essendo impegnato in un servizio di polizia, non era legittimato né all’uso né alla detenzione di un dispositivo in uso alle forze di polizia, peraltro privatamente ottenuto – secondo il suo dire – attraverso canali internet. Corretto è anche il rilievo che non rileva l’uso del dispositivo, ma la sua detenzione, per cui il reato non è escluso dal fatto che il lampeggiante fosse, al momento del controllo, spento (e ciò a prescindere dal fatto che anche la circolazione col dispositivo spento, ma collocato sul tettuccio dell’autovettura, potrebbe integrare una forma di “uso”). La motivazione concernente l’elemento materiale del reato è, quindi, priva di vizi logici e conforme al diritto.3. Lo stesso dicasi per l’elemento soggettivo, ineccepibile (e finanche sovrabbondante) essendo il rilievo che “la qualifica ricoperta da P. esclude in radice che egli non fosse perfettamente consapevole delle conseguenze dell’utilizzo improprio del lampeggiante”. Peraltro, essendo l’elemento soggettivo integrato dal dolo generico, è sufficiente la cosciente volontà della detenzione, mentre l’errore circa la liceità della detenzione si risolve in errore di diritto, la cui scusabilità non è nemmeno argomentata dal ricorrente.
4. Sebbene l’argomento non sia affrontato dal ricorrente, va sottolineato che non opera, nella specie, il principio di specialità posto dall’art. 9 della L. 689 del 1981, astrattamente invocabile sul rilievo che l’art. 177 del D.lgs 285 del 1992, al comma 4, punisce l’uso del lampeggiante fuori dei casi previsti dal comma 1 dello stesso articolo. La norma si riferisce, infatti, ai casi di “uso” improprio da parte di un soggetto legittimato (si riferisce, quindi, all’uso improprio che ne faccia un appartenente alle forze dell’ordine o uno degli altri soggetti indicati nell’art. 177 cit.), ma non anche alla “detenzione” illegittimamente acquisita dal quivis de populo, appartenente o meno ad uno dei Corpi specificati dalla norma.
5. Alla stregua di tanto non merita censura la decisione impugnata, che è priva di errori ed esibisce una motivazione che si segnala per sufficienza argomentativa. Il ricorso va pertanto rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.