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22 Novembre 2024 03:11

Con la chiusura dell’ ILVA l’Italia perderebbe l’1,4% del Pil. Il “conto” in rosso sarebbe di 24 miliardi di euro

Lo scudo penale pochi mesi fa con il decreto legge "Crescita" in piena campagna elettorale per le europee, era stato modificato dal Ministro Di Maio che lo aveva  condizionato allo svolgimento delle bonifiche, dopo che  ne aveva tolto uno analogo. Senza alcun consenso degli elettori, che avevano penalizzato il M5S che dopo un anno hanno perso oltre il 20% dei consensi.

ROMA – Da un’analisi econometrica commissionata a giugno scorso dal Sole 24 Ore allo Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, emerge che  lo stabilimento ex Ilva di Taranto venisse chiuso, con il conseguente azzeramento della produzione di acciaio , con la perdita di 6 milioni di tonnellate di produzione a regime, anche se quest’anno non verranno raggiunti i 5 milioni ,  la perdita segnerebbe un passivo di circa 24 miliardi di euro.

Secondo i dati Istat il Pil italiano nel 2017 veniva  stimato intorno ai 1.725 miliardi di euro, come evidenziato nella ricerca dello Svimez, la chiusura dell’ex Ilva ed il blocco della produzione avrebbe un valore pari a circa l’1,4 per cento del Prodotto Interno Lordo, al quale andrebbero aggiunti gli investimenti andati in fumo come quello del gruppo  ArcelorMittal che si era si è impegnato contrattualmente ad effettuare investimenti ambientali per 1,1 miliardi ed investimenti industriali per 1,2 miliardi, oltre al pagamento dell’azienda per 1,8 miliardi, al netto dei canoni di affitto già versati. Ai conteggi effettuato dagli analisti dello Svimez, andrebbe sommata chiaramente  la perdita di occupazione: attualmente in Italia per il gruppo Arcelor Mittal lavorano 10.700 dipendenti, di cui 8.200 a Taranto (dove sono in cassa integrazione ordinaria per 13 settimane, dal 30 settembre, 1.276 dipendenti per crisi di mercato).

Sulla base dell’analisi econometrica dello Svimez, dal sequestro dello stabilimento avvenuto a luglio 2012 per delle folli decisioni della magistratura locale, più che “politicizzata”, sono andati perduti ad oggi la bellezza di “23 miliardi di euro di Pil, l’1,35 per cento cumulato della ricchezza nazionale”. Lo studio economico ha considerato l’impatto della crisi dello stabilimento sull’andamento della produzione reale e fra il 2013 e il 2018, la perdita sarebbe stata tra i 3 e i 4 miliardi di euro ogni anno .

“Siamo la seconda manifattura siderurgica europea — ricorda  Alessandro Banzato presidente di Federacciaie perdere la presenza in Italia di ArcelorMittal significherebbe mettere in guai pesantissimi anche l’intera filiera che è a valle del prodotto finito e di cui si parla purtroppo poco. In Italia si producono 8,5 milioni di tonnellate all’anno di coils, di cui 5 milioni a Taranto, con importazioni pari a un valore di 5,6 milioni di tonnellate. Se Taranto non ci fosse più, si determinerebbe uno squilibrio a favore dell’import di acciaio di proporzioni enormi“.

 Sull’Ilva di Taranto, il governo gioca partite diverse. Ed ancora una volta non le gioca in squadra, mentre il leader della Lega Matteo Salvini si erge a unico difensore di 15mila lavoratori.  Non si possono affidare le sorti di un’intera provincia come quella di Taranto, che è grande quanto la Regione Basilicata,  nel pensiero ed operato dell’ex-ministra del Sud Barbara Lezzi (M5S) , prima firmataria e prima sostenitrice dell’emendamento al decreto imprese che il 22 ottobre ha cancellato l’immunità per i gestori della più grande acciaieria d’Europa.

Uno scudo che pochi mesi con il decreto legge “Crescita” in piena campagna elettorale per le europee, era stato modificato dal Ministro Di Maio che lo aveva  condizionato allo svolgimento delle bonifiche, dopo che  ne aveva tolto uno analogo. Senza alcun consenso degli elettori, che avevano penalizzato il M5S che dopo un anno hanno perso oltre il 20% dei consensi. Con quell’emendamento, che voleva prendere di mira il capo politico M5S e uno dei suoi tanti compromessi, due settimane fa l’ex ministra salentina è riuscita a portarsi dietro tanti senatori da mettere a rischio persino l’approvazione del decreto imprese su cui il Governo ha dovuto porre il voto di fiducia.

“Piuttosto andiamo tutti a casa”, avevano gridato i senatori grillini, in accordo con gli esponenti di Leu-Liberi e Uguali,  in una delle riunioni infinite che hanno segnato la svolta: la capitolazione di Patuanelli, prima. Poi del ministro ai Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà. coinvolgendo il Pd ed Italia Viva : stralciamo lo scudo, vada come vada, era stata questa la decisione unanime che  adesso, l’ex ministro dello sviluppo economico (Governi Renzi e Gentiloni, n.d.r.)  Carlo Calenda rinfaccia a tutto il governo.

I ministri “dem” ripetono: “Patuanelli in consiglio dei ministri ci aveva assicurato che non ci sarebbero state conseguenze sull’impegno di Mittal. Gliel’abbiamo chiesto tutti”. il ministro dello Sviluppo Economico aveva anche detto “Non ho la sfera di cristallo”.

I vertici del governo a trazione M5S-Pd in realtà sapevano molto bene cosa sarebbe accaduto: non tanto per lo scudo quanto per i 2 milioni di perdite al giorno della fabbrica di Taranto, che un colosso mondiale come Arcelor Mittal poteva sopportare, ma sopratutto  per i problemi di sicurezza dell’Altoforno 2. con un’obsolescenza alla quale si rimedia solo con “investimenti giganteschi”. La Lezzi non sapendo cosa dire, a causa delle sue evidenti incompetenze,  ricorda quando, a giugno 2018, Beppe Grillo immaginava per l’Ilva una totale riconversione, un parco sul modello di quanto fatto nel bacino della Ruhr in Germania. Di Maio lo aveva subito sconfessato : “Sono opinioni personali“, abbandonando le promesse dei grillini locali in campagna elettorale (chiusura programmata e riconversione) e concludendo la trattativa avviata da Calenda, che fino a pochi giorni prima aveva tentato di invalidare. E che porta la firma finale proprio di Luigi Di Maio.

La verità come scrive il collega Sergio Rizzo su La Repubblica , è che manca la visione che è sempre mancata. E anche il nuovo potere finisce per ripercorrere le stesse strade del passato, lastricate di clientele e contributi pubblici. Senza riuscire a immaginare modelli di sviluppo diversi da quelli fallimentari di una industrializzazione forzata e sussidiata, priva di industrie a valle, priva di infrastrutture, destinata a produrre sviluppo effimero.

Così come era accaduto nei decenni dell’acciaio di Stato ed era stato replicato nell’epoca dei Riva, neppure negli ultimi sette anni, da quando il bubbone dell’inquinamento dell’Ilva di Taranto è scoppiato, è stata affacciata una parvenza di soluzione credibile di lungo periodo, un’alternativa di sviluppo e sostenibilità. Che avrebbe certo avuto bisogno di tempo, ma anche di qualcuno che l’avesse pensata, discussa, elaborata. E ora siamo arrivati al dunque. Come già nel Sulcis, in Sardegna. O a Termini Imerese, in Sicilia. E quasi ovunque in tutto il Sud. Dove si continua a mettere pezze sempre più piccole, con progetti che evaporano, investitori che si dileguano, e promesse buone solo per le campagne elettorali che sfociano regolarmente in cassa integrazione. O in alternativa, adesso, nel “famoso” reddito di cittadinanza.

I giovani del Sud continuano a fuggire. Crollano gli investimenti pubblici. Va male l’agricoltura, bene il terziario. L’industria stenta. Scarsi i servizi ai cittadini, a partire dalla sanità e dalla scuola. Sul piano occupazionale, il reddito di cittadinanza ha avuto un impatto nullo. Non solo, secondo lo Svimezinvece di richiamare persone in cerca di occupazione, le sta allontanando dal mercato del lavoro”. Sono questi alcuni elementi che emergono dal Rapporto Svimez 2019 sull’economia e la società del Mezzogiorno, presentato ieri a Montecitorio, a Roma, proprio nelle ore in cui  esplodeva la vicenda Arcelor Mittal .

Cosa altro  altro deve accadere in Italia perché questa squalificata sottoclasse politica comprenda che è finito il tempo delle parole e degli slogan di protesta, e che adesso ed è in gioco il futuro stesso del Paese?
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