di Attilio Bolzoni
Ci sono quelli che hanno il vizio di scrivere e danno notizie che fanno male. Ma ci sono anche gli altri, quelli che stanno sempre in silenzio stampa, pure quando il collega della scrivania accanto è perseguitato dagli scagnozzi di un boss o la porta di casa sua sta bruciando per un attentato. Fanno finta di niente. A volte per indifferenza, a volte per paura. Muto tu e muto io. Sono le due facce del giornalismo in terre di mafia.
Non c’è solo la Sicilia e non ci sono solo la Calabria o la Campania. Li vogliono con la bocca chiusa anche in Emilia, in Lombardia, in Veneto, a Roma, a Fondi e a Latina. Diffondono informazione scomoda dappertutto, in cambio ricevono insulti o minacce o pallottole in redazione. E citazioni per milioni di euro. Un articolo di troppo può mandare all’aria un affare, certi nomi è sempre meglio non farli. Chi tace, di sicuro ci guadagna.
Soli, sperduti nelle province italiane più lontane, ci sono decine di giornalisti e blogger che sono diventati corrispondenti di guerra a casa loro. Irriverenti e coraggiosi, con la passione del raccontare si sono sostituiti come antenne sul territorio alle tradizionali associazioni antimafia sempre più ossequiose e ammanigliate con i poteri locali che le foraggiano di consulenze e incarichi.
Andare oltre, il confine è impercettibile. Bastano trenta righe in cronaca e ti stampano addosso il marchio di sconsiderato o anche di spione. Poi il silenzio degli altri che isola, tutti sempre un passo indietro o al servizio del signorotto che paga di più o al momento più potente.
“Comprati e venduti”, è il titolo dell’ultimo libro di Claudio Fava, storie di giornalisti ma anche di editori, padrini e padroni. La palude di quarant’anni fa e quella di oggi, un racconto ricavato dagli atti dal primo rapporto della Commissione Parlamentare Antimafia su mafie e informazione. Complicità e atti di ribellione, omertà e violenze contro chi oltrepassa una linea invisibile.
E poi i morti. Non c’è luogo in Europa dove siano stati uccisi tanti giornalisti come in Sicilia: otto in poco meno di vent’anni, tutti per mano mafiosa. Una mattanza dimenticata. Ma oggi non basta più ricordare e onorare solo i giornalisti morti. Bisogna avere più rispetto per quelli vivi.
Anche quando sono nei paraggi, quando controcorrente scoperchiano vergogne o denunciano opacità negli ambienti apparentemente più insospettabili. Si fa un gran parlare di giornalismo di qualità e si straparla di giornalismo d’inchiesta. Tutti lo invocano, tutti lo vogliono. Ma a una condizione: che si occupi sempre degli altri.
Il giornalismo d’inchiesta piace solo quando è lontano da casa propria.