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21 Dicembre 2024 15:06

Difendere i confini (anche della politica)

Non basta aver fiducia nella magistratura, Occorrono regole che tutelino il perimetro del campo di gioco della politica dalle intromissioni. Occorrono norme che non siano liberamente interpretabili, ma totalmente invalicabili.
di Giovanni Toti

Mettiamo in fila un po’ di fatti a cui abbiamo assistito nei mesi appena passati e che corrono lungo quella invalicabile linea del Piave che dovrebbe dividere e proteggere due poteri sovrani dello Stato: la politica e l’amministrazione della giustizia. Ieri i sei anni di condanna richiesti, accusa di rapimento, per un ministro che attuava la linea politica di un Governo eletto dai cittadini. Durante questa estate il caso Liguria: un organo costituzionale, come è un governo regionale, intercettato e controllato per oltre tre anni, in segreto, senza formalizzare alcuna accusa. E ancora, sempre nella stessa regione, un intero dipartimento, quello dell’ambiente, indagato per aver autorizzato un dragaggio nel porto di Genova, necessario per fare entrare le grandi navi da crociera che portano i turisti.

L’ipotesi di reato è legata allo spostamento di fanghi da un luogo all’altro dello stesso mare, dello stesso scalo. Sott’acqua stavano, sott’acqua restano, a pochi metri di distanza, ma ciò potrebbe essere un crimine. Prima di ciò abbiamo assistito ad una inchiesta in Lombardia, per fortuna finita in nulla, che ha visto accusare il Governatore Fontana di aver meritoriamente acquistato camici e mascherine per proteggere i sanitari durante il Covid. Potrei citare ancora molti altri casi, mi fermo qui. Gli esempi, molto diversi tra loro, bastano per ciò che vorrei dire alla politica tutta.

Quando comincia una inchiesta, quasi con un riflesso condizionato, sentiamo tutti gli esponenti dei partiti ripetere più o meno la stessa cosa: “abbiamo fiducia nella magistratura e siamo certi che gli accusati sapranno dimostrare la propria innocenza nel processo”. Una frase fatta che non coglie la gravità del tema. Le accuse, le indagini, i processi e perfino i proscioglimenti che ho citato nei miei pochi esempi sono già essi stessi un vulnus, una ferita alla politica. Poco importa come le storie andranno a finire. Quando le singole vicende arrivano in aula per il processo, o anche quando non ci arrivano proprio, la giustizia ha già dettato l’agenda, ha già invaso il campo della politica.

La questione non è se Salvini sarà condannato o assolto, come auspico, nel processo per sequestro di persona legato alle politiche di contrasto all’immigrazione clandestina. La vera questione è che quel processo non si sarebbe mai dovuto fare. La giustizia ordinaria, infatti, non può processare una linea politica scelta dai cittadini, perché ciò pone dei giudici, funzionari dello Stato, e le loro convinzioni, sopra la sovranità popolare. Ciò non vuol dire garantire l’impunità alla politica, come sostengono i populisti nelle piazze.

Vuol dire un’altra cosa: se un politico ruba un portafoglio, sarà processato come ladro, ma se attua una linea politica approvata dal Parlamento, a contestare il suo operato può essere solo un tribunale politico, o la Corte Costituzionale. Stessa cosa vale per la durata delle indagini: se è possibile spiare, intercettare, controllare, un’amministrazione pubblica per tre anni, all’insaputa di tutti e senza contestazioni di reato ai controllati, perché allora non controllarla per trent’anni? Perché non per sempre?  E, in questo caso, il concetto vale anche per il comune cittadino: se si può intercettare qualcuno per molti anni, fino a quando non ci si imbatte in un possibile reato, perché non intercettare sempre tutti, dalla nascita alla morte, così da conoscere il comportamento della intera cittadinanza? Qualche Paese dell’Est anni fa faceva così.

E se ogni pratica ambientale degli uffici pubblici è diventata oggetto di legislazione penale, non più di controllo amministrativo, quale discrezionalità di scelta resta alla politica? Se ogni acquisto, vedi le mascherine, a prescindere dalla gravità del momento e dalle priorità che la politica ritiene indispensabili, può diventare oggetto di inchiesta penale, chi decide in realtà la necessità e l’urgenza di quella azione? Chi è stato eletto dai cittadini o il giudice che in qualunque momento potrebbe metterlo sotto processo per la sua decisione?

Tutto ciò per dire una cosa semplice, di cui mi pare la politica non si sia ancora resa conto fino in fondo. Non basta aver fiducia nella magistratura, come recita il mantra, e nella correttezza delle sue inchieste e dei suoi processi. Perché vi sia realmente un equilibrio tra i poteri occorre che certe inchieste, certi processi non si facciano proprio. Occorrono regole che tutelino il perimetro del campo di gioco della politica dalle intromissioni. Occorrono norme che non siano liberamente interpretabili, ma totalmente invalicabili.

Per questo la riforma Nordio della Giustizia, pure meritevole, non basta neppure a cominciare per restituire equilibrio ad un sistema distrutto dai tempi di Mani Pulite in poi. Se è giusto agire per riformare l’Ordinamento Giudiziario, è indispensabile soprattutto che il Parlamento metta mano ad una ristrutturazione legislativa che cancelli tante delle norme approvate nel passato che hanno reso il sistema giudiziario arbitro morale delle scelte di chi Governa lo Stato, una Regione, un Comune, su mandato dei cittadini.

Quelle stesse norme che hanno reso proprio quei cittadini un po’ meno innocenti, senza bisogno neppure della prova contraria. Prima di approvare altre leggi, prima di varare altri «pacchetti sicurezza», prima di inventare nuovi reati, il Parlamento lavori per cancellare tanti degli scempi giuridici del passato. La politica ha il sacro dovere di difendere i confini dello Stato, come ha fatto Salvini, ma per farlo deve tornare a difendere, senza timidezza, anche i confini che proteggono se stessa.

*editoriale tratto dal quotidiano il Giornale
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