Un secondo processo a carico dell’ex Ilva riprenderà dall’inizio con trasferimento al Tribunale di Potenza. Un’ ennesima vittoria del collegio difensivo composto dagli avvocati Pasquale Annicchiarico, Vincenzo Vozza, Luca Perrone, Carmine Urso e Daniele Convertino, ed un’altra sconfitto (dal punto di vista della competenza territoriale) della Procura di Taranto. Si tratta del presunto disastro ambientale ai danni della gravina Leucaspide, in agro di Statte, dove venivano stoccati rifiuti pericolosi.
Il trasferimento del processo in Basilicata è stato deciso dal collegio presieduto dal giudice Tiziana Lotito, del tribunale tarantino, il quale molto spesso dissente dai teoremi della procura, che ritenendo fondata la connessione tra i due procedimenti come sostenuto dagli avvocati della difesa, ha emesso una sentenza con la quale è stata dichiarata l’incompetenza territoriale di Taranto per una connessione appunto con il processo “Ambiente Svenduto” già trasferito da Taranto dinnanzi al Tribunale del capoluogo lucano.

Gli imputati tra componenti della famiglia Riva ed ex dirigenti della fabbrica nel periodo dal 1995 al 2012, sono in totale 8 . Nel 2020 vennero mandati a processo a Taranto cinque esponenti della famiglia Riva: Angelo Massimo, Claudio, Cesare Federico, Fabio Arturo e Nicola Riva, ed Antonio Gallicchio, Luigi Capogrosso e Renzo Tomassini, tre ex dirigenti dello stabilimento siderurgico di Taranto . L’inchiesta ebbe origine da un esposto presentato nel 2013 da Filippo De Filippis, titolare dell’azienda agricola “Leucaspide“, ubicata nelle adiacenze dell’area inquinata dai rifiuti. Le accuse di cui dovranno eventualmente rispondere sono di compromissione di un’area protetta, danneggiamento aggravato, disastro ambientale, gestione illecita di rifiuti, inquinamento delle acque, mancata bonifica .
La vicenda prese le mosse a fine ottobre del 2018 cioè da quando scattò il sequestro, su provvedimento del gip Vilma Gilli, ora in servizio negli uffici giudiziari di Brindisi, di uno spazio di terreno ampio circa 530 mila metri quadrati all’interno del quale erano stati stoccati 5 milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi e non pericolosi di origine industriale in cumuli opere prive di copertura e rimedi contro lo spandimento di polveri pericolose per la salute, frane e dispersione in falda del percolato dell’altezza di oltre 30 metri sopra il piano campagna.
Secondo il magistrato titolare dell’inchiesta all’epoca dei fatti, il pm Mariano Buccoliero, gli imputati avrebbero omesso di mettere in sicurezza le aree sequestrate per risparmiare sui costi della bonifica ed ottenendo secondo la procura jonica “un ingiusto vantaggio patrimoniale”. Ma adesso dovranno occuparsene i magistrati ed i giudicanti del Tribunale di Potenza. Il protagonismo mediatico della Procura di Taranto può andare in letargo,