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Quando su Facebook si ricordano i 50 milioni di morti della seconda guerra mondiale e qualcuno grida alla propaganda invece di ripassare la storia, emerge con nettezza qual è il vero problema dell’abuso dei social network: la perdita della memoria collettiva e l’avvento di un nuovo senso delle cose.
Dal punto di vista della privacy, come ha sottolineato un esperto del settore quale Claudio Giua, per quanto riguarda l’Italia e l’Europa, il nodo da affrontare e sciogliere è la mancata applicazione da parte di Facebook di adeguate misure di sicurezza emersa dalla vicenda, ”che nulla ha a che fare con la completezza finanche eccessiva dei dati personali raccolti”.
C’è da chiedersi se a ribaltare la situazione basterà l’applicazione, prevista per il 25 maggio, della GDPR, la General Data Protection Regulation, il complesso di norme messe a punto dall’Unione Europea al fine di garantire un quadro entro il quale i dati degli utenti siano immagazzinati in modalità corrette e trattati nel rispetto della volontà delle parti coinvolte.
Il regolamento comunitario rafforza le informative per la raccolta dei consensi, limita il trattamento automatizzato dei dati personali, stabilisce nuovi criteri sul loro trasferimento fuori dell’Unione e, soprattutto, colpisce le violazioni. In sostanza pone le basi per il riconoscimento di una sorta di diritto d’autore sui Big Data. Sarebbe un passo decisivo, perché risulta difficile accusare qualcuno di aver utilizzato la propria auto come un taxi, intascando i profitti, senza poter dimostrare la proprietà del mezzo. È proprio quello che sta accadendo con il “caso Datagate“, che potrebbe risolversi in un nulla di fatto e solo qualche scossone in borsa.
Se davvero passerà una simile interpretazione, per la prima volta, queste norme sulla tutela dei dati personali nell’Unione Europea, che ha progettato anche una web tax sul fatturato, saranno pienamente valide anche per chi ha sede extracomunitaria, come Facebook, Google, Twitter, Amazon, Apple, cui risulterà più difficile eludere le responsabilità finora solo formalmente assunte nei confronti degli utenti.
Per quanto riguarda il secondo punto di vista che si deve affrontare, viene in aiuto una recentissima pubblicazione di una neuro scienziata, ricercatrice al Lincoln College dell’Università di Oxford, Susan Grenfield.
In “Cambiamento mentale” appena tradotto in italiano, questa baronessa premiata con la bellezza di 31 lauree honoris causa in mezzo mondo, esamina come le tecnologie digitali stiano modificando il cervello. E a proposito dei social network, Grenfield scrive:
‘‘gli utilizzatori di Facebook sono più soddisfatti delle proprie vite quando pensano che i propri amici di Facebook siano un pubblico personale a cui trasmettere unilateralmente informazioni, rispetto a quando hanno scambi reciproci o più relazioni offline con contatti ottenuti online”.
Le relazioni digitali sarebbero quindi ”legate a una minore depressione, a una ridotta ansia e a un maggior grado di soddisfazione alla propria vita”. Esattamente quello che intendeva Zuckerberg quando stilò il suo Manifesto, dove parlava della possibilità di governare gli effetti nefasti della globalizzazione attraverso la rete, esaltando le relazioni personalivirtuali: ”Tutte le soluzioni non arriveranno solo da Facebook ma noi credo che potremo giocare un ruolo“. Un po’ quello che temeva George Orwell in 1984. Il problema è capire che ruolo ha la rete nei disturbi della personalità.
Nel campo della salute mentale, secondo lo psichiatra Massimo Ammaniti, si tende a valorizzare l’uso dei Big Data in quanto offrono nuove opportunità per la ricerca data, l’ampiezza sconfinata dei campioni, ma allo stesso tempo vengono sollevate perplessità sulla “veracity” e sulla “unreliability” delle informazioni provenienti da varie fonti.
Riguardo alla “veracity”, la ”veridicità”, ci si chiede se i dati raccolti senza una prospettiva di ricerca possano essere utilizzabili. Avere un valore in quanto fonte di informazioni rilevanti come pesa sull’immagine di sé e sulla propria autostima?
Non ci si valuta come persona, ma come “informant” che serve al mercato, non ci si valuta per quello che si è ma per quello che ognuno vale. Quando si entra in un data base fornendo le proprie informazioni personali – per esempio come quello di Cambridge Analytica – si accede a un universo di categorie che verranno definite.
Forse ci si potrà chiedere che uso verrà fatto delle informazioni che ci riguardano e chi saranno coloro che utilizzeranno questi dati per pianificare le nostre vite. Può prendere corpo uno scenario appunto orwelliano, un mondo distopico, in cui si è costretti a vivere dove viene meno il senso agente di sé perché qualcun altro decide del nostro futuro senza che ne abbiamo consapevolezza.
In campo psichiatrico per descrivere l’esperienza di spersonalizzazione vissuta dai malati mentali si è fatto riferimento al concetto di ”pseudocomunità paranoide”, nella quale ci si sente preda di cospirazioni e raggiri senza sapere chi siano gli attori e i protagonisti, per cui è impossibile riuscire ad orientarsi e difendersi.
Un articolo dell’American Journal of Epidemiology, citato in un’inchiesta della London Review of Books, ha sostenuto che a un aumento dell’1% dei like su Facebook, dei click e degli aggiornamenti corrisponde un peggioramento dal 5 all’8% della salute mentale. Difficile pensare che tutte queste informazioni possano servire a sovvertire i regimi democratici, magari si vende più pubblicità.
La domanda più pragmatica da porsi è perciò un’altra. Se cambia la personalità usando internet, cambiano anche le scelte commerciali? Questa è la terza frontiera che si deve analizzare. Oggi si conosce cosa accade in sessanta secondi sul web.
In un giro di lancette, si effettuano 900.000 login su Facebook, si inviano 452.000 “cinguettii” su Twitter, si vedono 4,1 milioni di video su YouTube, si effettuano 3,5 milioni di ricerche su Google, si postano 1,8 milioni di foto su Snapchat, si inviano 16 milioni di messaggi.
I calcoli del World Economic Forum fanno riflettere ma non dicono quanto di se stessi si lascia nel momento in cui si riversano nell’agorà digitale inclinazioni, paure, desideri. Una risposta l’ha fornita proprio l’ex socio di Mark Zuckerberg, Sean Parker, ben prima che scoppiasse il Datagate: Facebook sarebbe
È del tutto evidente che non esiste quindi soltanto il problema di come trattare e proteggere i dati personali ma anche di valutarne a questo punto l’affidabilità e la veridicità in tutti i gesti quotidiani. Quando si acquista un bene e si viene profilati, quando si esprime un parere e ci si sottopone al giudizio del pubblico virtuale, quando si esercita la massima espressione delle libertà personali in democrazia, il voto.
Se dietro a tutte queste manifestazioni c’è ormai una sagoma sbiadita di un’identità, qualcosa la cui verosimiglianza è a rischio, il lavoro controverso e criticato di Cambridge Analytica e di chissà quante altre società, diventa solido come un castello di carte. La fake news saremo noi.
*Direttore Relazioni Esterne Autorità Antitrust, fondatore de La Nuova Europa