ROMA – La crisi dell’Ilva è costata all’economia nazionale italiana per essere precisi , 15 miliardi e 800 milioni. Tanto . Questo l’impatto sul nostro PIL (prodotto interno lordo) causato dalla minore produzione dell’impianto di Taranto secondo i calcoli dello Svimez, che, su richiesta del Sole 24 Ore, ha inserito nel suo modello econometrico i dati sull’andamento manifatturiero reale forniti dall’impresa. Il deterioramento dell’ “output” è risultato significativo. In cinque anni , fra il 2013 e il 2017 sono andati in fumo quasi 16 miliardi di euro di Pil ,cioè l’equivalente di una manovra finanziaria sui conti pubblici in tempo di recessione.
Il primo elemento che colpisce, come evidenzia lo SVIMEZ è la costanza dell’effetto negativo. Tutto ha origine con l’arresto di Emilio Riva e dal sequestro degli impianti disposti dalla Procura di Taranto , avvenuti il 26 luglio 2012, a seguito della quale sono accadute molte cose. Il 26 novembre 2012 vengono sequestrate 900mila tonnellate di semilavorati e di prodotti finiti per il valore di un miliardo di euro. Il 24 maggio 2013, vengono “bloccati” ai Riva beni per 8 miliardi di euro, la cifra da loro risparmiata – secondo l’opinione ed i calcoli dei custodi giudiziari – per il mancato ammodernamento degli impianti. Il 4 giugno 2013, il Governo Letta procede al commissariamento dell’ ILVA . Il 5 gennaio 2016, viene reso reso pubblico il bando per la vendita. Il 30 novembre 2016, il Governo Renzi raggiunge un accordo extra-giudiziale con la famiglia Riva per il rientro degli 1,3 miliardi di euro custoditi fra la Svizzera e il paradiso fiscale delle isole Jersey e scoperti dalla Guardia di Finanza a seguito di una dichiarazione non veritiera di “scudo” fiscale introdotto dal ministro Giulio Tremonti durante il Governo Berlusconi.
AmInvestco Italia, la società a maggioranza Arcelor Mittal (85%) ed a minoranza Gruppo Marcegaglia (15%), si aggiudica l’ ILVA il 6 giugno 2017 . Arrivando ai nostri giorni, si consumano gli scontri fra il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, e il sindaco del Comune di Taranto, Rinaldo Melucci, propugnatori di un minaccioso (ed inutile, secondo noi) ricorso al Tar di Lecce contro il decreto sul piano ambientale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ed il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda. Un percorso accidentato in questi cinque anni avente sullo sfondo, il vano tentativo di trovare una conciliazione fra salute d occupazione, una piaga che non è stata ancora guarita a Taranto e che soltanto un cieco o un folle non vedrebbe.
Come il CORRIERE DEL GIORNO ha più volte scritto e denunciato (unico organo di informazione a farlo !) abbiamo assistito ad un vero e proprio conflitto fra i poteri dello Stato: una magistratura desiderosa più di visibilità e palcoscenico nazionale che di giustizia e la politica, con la prima prevalente grazie al potere giudiziario esercitato, rispetto alla seconda. Nella stima inedita della Svimez emerge la linearità della perdita di ricchezza nazionale: 3,22 miliardi di euro di Pil in meno nel 2013, 3,23 miliardi in meno nel 2014, 3,42 miliardi in meno nel 2015, 2,5 miliardi in meno nel 2016 e 3,47 miliardi in meno nel 2017. Un bel risultato non c’è che dire…per il quale nessun magistrato, consulente della procura, commissario straordinario pagherà mai un solo centesimo di euro !
La freddezza dei numeri appare evidente , non può chiaramente tener presente gli sforzi o i ritardi nella annosa risoluzione del problema ambientale che rimane il “cuore” della questione Ilva, e fa risaltare quanto l’impatto economico sia profondo per la fisiologia del Paese.
Basti sapere che, a causa gli effetti diretti e indiretti della minore produzione della acciaieria di Taranto, l’export nazionale è stato “decapitato” fra il 2013 e il 2017, sulla base calcoli effettuati da Stefano Prezioso economista della Svimez, – di 7,4 miliardi di euro. Un dato che dimostra quanto l’incapacità dei precedenti proprietari (Gruppo Riva) e della politica, della magistratura e dei sindacati di raggiungere una mediazione, un accordo e sopratutto un reale e stabile punto di equilibrio in questa vicenda abbia danneggiato non poco la natura manifatturiera e orientata all’export di un Paese delle fabbriche, che ha avuto fin dagli anni Cinquanta una delle sue componenti principali e più importanti nella siderurgia.
Contestualmente i calcoli e le analisi della Svimez fanno chiarezza su uno dei principali quesiti di una vicenda che, qualsiasi sia il giudizio o l’opinione su di essa, è senza dubbio di “interesse nazionale“: il maggiore import estero conseguenziale alla crisi dell’Ilva. Per dirla in soldi ed essere chiari, i vantaggi acquisiti dai gruppi stranieri concorrenti all’ ILVA di poter conquistare delle quote di mercato e nel appropriarsi delle parti più ricche della filiera del valore nelle forniture di acciaio alla manifattura italiana. Secondo la Svimez, questo altro capitolo di ricchezza svanita e persa strada facendo costituisce in cinque anni ad un valore economico pari a 2,9 miliardi di euro. In questa vicenda, applicando un criterio di valutazione economica, vi è anche un altro aspetto che, è stato trascurato: il tema degli investimenti fissi lordi nazionali andati perduti in maniera diretta e indiretta trasformando l’ ILVA in un “gigante” limitato dalla magistratura, che ha visto scendere la produzione dalle nove milioni di tonnellate toccate sotto la gestione del Gruppo Riva agli attuali cinque milioni di tonnellate (quasi il 50% in meno) e con una minore capacità produttiva di generare ricavi e valore.
Va anche detto che l’impianto di Taranto non ha mai realizzato una eccelsa produzione specializzata ed innovativa. Al contrario, si è sempre collocata su un segmento medio basso, con la “spremitura” dell’impianto e con l’“efficienza organizzativa” dei Riva a garantire una buona produttività (e buoni bilanci). Ma è altresì vero che la scelta obbligata, da parte dei commissari , di non fare implodere i conti mantenendo a livelli accettabili i ricavi, ha portato ad una diminuzione del ciclo interno ed a politiche di acquisti più espansive. A causa della gracilità generale dell’impianto e per l’irradiamento di questa sua debolezza, ecco che gli investimenti fissi lordi persi a causa della riduzione della produzione sono stati pari fra il 2013 e il 2017 a 3,7 miliardi di euro.
Per non parlare di un indotto “paralizzato” ed indebitato a causa dei pagamenti non pagati da parte dell’ ILVA in amministrazione straordinaria, che diceva ai suoi fornitori “continua a lavorare a fornirci, altrimenti non lavori più per noi” senza pagare i debiti maturati che hanno raggiunto i 180 milioni di euro alla data odierna, con le oltre 300 aziende dell’indotto ed in appalto, che rischiano di fallire e non hanno più credito dalle banche, come ha ricordato ed evidenziato nei giorni scorsi in una conferenza stampaVincenzo Cesareo il presidente di Confindustria Taranto .
In realtà, questo problema, è strategicamente maggiore rispetto alla semplice quantificazione del “danno” per usare un linguaggio tecnico-giuridico, in una storia piena di troppi magistrati ed altrettanti avvocati . In un Paese come l’Italia, che come evidenzia lo Svimez ha un problema strutturale con la dimensione di impresa per via della ritirata dei grandi gruppi privati e post-pubblici, il danno economico di fatto non è rappresentato soltanto dai 3,7 miliardi di euro di investimenti in meno. Il danno infatti è prevalentemente costituito anche da quello che non si vede: la diminuzione di quello che gli economisti chiamano “spillover“, cioè la diffusione informale di innovazione verso i clienti e i fornitori, che sono per lo più piccoli e medi imprenditori.
Concludendo vi un tema “sociale” che appare complementare alla “questione ambientale”: i consumi persi dalle famiglie in quanto i redditi di chi è in Cassa Integrazione sono chiaramente inferiori alla normalità. Consumi andati persi perché quando lavori in una azienda dell’indotto locale tarantino o in una società della filiera della fornitura nazionale il tuo posto di lavoro è sempre costantemente “a rischio”. In questo caso, il calcolo finale elaborato dagli economisti della Svimez consiste in 2,5 miliardi di euro. Cioè mezzo miliardo di euro all’anno in meno, dal 2013 ad oggi. Questi sono i “reai” numeri di Taranto e per l’Italia. Ed i numeri parlano. Molto meglio delle carte giudiziarie e tantomeno dei ricorsi dei “masanielli” di turno.