di Marco Follini
Il risultato elettorale della Lombardia e del Lazio, ovviamente, fa piacere agli uni e dispiace agli altri. Ma pone anche ad entrambi un problema che va al di là dei numeri. E cioè quello della crisi del sistema politico rappresentativo, certificata impietosamente dal numero degli astenuti. Il fatto è che la ‘terza‘ repubblica, chiamiamola così, abbondando nei numeri e nell’enfasi, sembra quasi riprodurre i difetti delle prime due. Sarebbe a dire, quella democrazia bloccata, priva di ricambio, che ai tempi della Dc e del Pci non consentiva di praticare l’alternanza. E poi quel conflitto troppo muscolare, quasi selvatico, che opponeva polo e ulivo al modo quasi di una reciproca crociata.
La destra gode oggi di un vantaggio numerico e insieme di un vantaggio strategico. Il favore popolare è dalla sua, come dicono i numeri. E l’impossibilità di coalizzare tutti gli avversari accomunandoli in uno stesso cartello elettorale aggiunge una buona dose di fortuna ai numeri della maggioranza. Dunque, viene facile scommettere sulla stabilità, a meno di errori ed eventi che modifichino questo quadro un po’ idilliaco.
Eppure tutti questi vantaggi contengono un’intima fragilità, che è legata alla profonda crisi del sistema politico. E dunque, se a quella crisi non verrà posto rimedio, è facile prevedere che prima o poi essa invaderà anche i giardini fioriti della attuale maggioranza di governo. Ma il rimedio sta per l’appunto in un comune disegno riformatore. Quel disegno che da mezzo secolo a questa parte viene continuamente evocato e che poi continuamente svanisce.
Il fatto è che servirebbe a tutti ripensare la politica da cima a fondo, mostrando di cogliere il valore e il significato di quel difetto di rappresentanza che le astensioni evidenziano ogni volta di più. Ma quel ripensamento richiederebbe a sua volta un incontro a metà campo, un patto volto a limitare le reciproche faziosità, l’evocazione di uno spirito costituente che facesse il paio -finalmente- con tutti quei tributi che vengono riservati alla Costituzione di allora e alla faticosa convivenza tra i partiti che furono protagonisti di quel tempo così lontano.
E invece la parola d’ordine continua ad essere quella del reciproco arroccamento. Giorgia Meloni difende con grinta eccessiva i suoi dioscuri, Donzelli e Delmastro, non proprio due emuli da Gladstone e Disraeli. E Letta e Bonaccini a loro volta vengono quasi lapidati dalle parti del Pd per aver riconosciuto che la loro avversaria ha qualità politiche che meritano un certo rispetto.
Sono due esempi pescati a caso in un fitto calendario di improperi e delegittimazioni che ormai non appassiona più neppure i tifosi più sfegatati. E che tuttavia si ripete ogni volta con una sorta di ossessiva monotonia. Ossessiva ma soprattutto improduttiva.
Eppure dovrebbe essere proprio l’attraversamento dei confini il compito più sfidante per una nuova generazione politica. Non per il gusto di compiacere i propri avversari, fin quasi a farseli complici. Ma per l’ambizione di concorrere a un disegno che non parli solo al cuore dei propri adepti ma riesca finalmente a dire qualcosa anche alla vasta platea degli scontenti di tutti i colori.
La storia delle grandi democrazie è piena di questi esempi. E anche la nostra. Furono uomini di sinistra a praticare la moderazione salariale e a portare i sindacati al tavolo della concertazione. E uomini più di destra a contrastare derive autoritarie e a riconoscere la saggezza di un certo diffuso senso comune. De Gasperi si oppose al Papa (al Papa !) che voleva che la Dc aprisse all’estrema destra. E Togliatti si oppose a Stalin che forse avrebbe preferito maniere più forti.
Nessuno chiede così tanto. Ma che almeno si intrecci un dialogo per cambiare insieme qualche frammento (la legge elettorale?) di un sistema ormai scombiccherato converrebbe a tutti. A patto di riconoscere che queste cose o si riuscirà a farle tutti insieme o si finirà per non farne niente