L’ex procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale ed il pm Sergio Spadaro sono stati condannati a 8 mesi dal Tribunale di Brescia nel processo in cui rispondevano di rifiuto di atti d’ufficio per non aver depositato, è l’ipotesi, atti favorevoli alle difese nel processo Eni/Shell-Nigeria che si è concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati. Lo ha deciso il tribunale bresciano, presieduto da Roberto Spanò, che ha accolto la richiesta dei pm Francesco Milanesi, Donato Greco e del procuratore Francesco Prete. I giudici hanno però concesso ai due magistrati le attenuanti generiche e, a differenza di quanto chiesto dalla procura, la sospensione condizionale della pena, con la non menzione.
Il processo principale verteva su una presunta corruzione internazionale, e secondo la tesi della procura, guidata all’epoca da Francesco Greco, era stata pagata una maxi tangente nigeriana da un miliardo di dollari. Dopo l’assoluzione, anche la Cassazione ha messo la parola fine lo scorso giugno. Tuttavia i filoni secondari sono proseguiti fino ad oggi.
Sono presenti tre documenti di 88 pagine, denominati “falsità Armanna”, dal nome di Vincenzo Armanna, ex manager Eni, grande accusatore della società petrolifera sulla stecca da un miliardo per aggiudicarsi il giacimento Opl 245. Tra gli elementi raccolti da Storari ci sono i messaggi whatsapp del 14 e 17 dicembre 2019, estratti in copia forense dal telefono di Armanna nel novembre 2020, da cui emergerebbe come avrebbe pagato 50mila dollari a due testimoni del processo Eni Nigeria, Tmy Aya e Isaac Eke, in particolare a uno di loro per confermare in aula di essere l’uomo che gli si era presentato in Nigeria come Viktor Nawfor e di aver visto “gli italiani” imbarcare “trolley pieni di denaro“, come prezzo della corruzione retrocesso a Eni.
Secondo l’ impianto accusatorio i due magistrati milanesi accecati dalla voglia di “vincere a tutti i costi il processo Eni-Nigeria, si sarebbero poste in insanabile contrasto con il ruolo del pm“. Per raggiungere tale risultato avrebbero omesso di mettere a conoscenza degli imputati gli elementi segnalati dal pm Paolo Storari, “utili e pertinenti a valutare la inattendibilità” dell’accusatore di Eni e del coimputato Vincenzo Armanna. E a prescindere dalla fondatezza dell’allarme lanciato dal pm Storari – in seguito rivelatosi veritiero -, i due magistrati avevano “l’obbligo di depositare quei documenti, indipendentemente dalla personale interpretazione” circa la loro rilevanza probatoria.
Il loro comportamento era stato criticato e stigmatizzato persino dal presidente del collegio giudicante Marco Tremolada, il quale ha duramente criticato i due magistrati nelle motivazioni della sentenza Eni. Tra gli atti omessi c’è un video girato in maniera clandestina da Piero Amara, l’ex avvocato esterno di Eni che ha svelato l’esistenza della fantomatica – e smentita – “Loggia Ungheria”, video che testimoniava un fatto clamoroso: la volontà di Armanna di ricattare i vertici Eni e avviare una devastante campagna mediatica. Proprio per tale motivo, si sarebbe adoperato per “fargli arrivare un avviso di garanzia“. E guarda caso due giorni dopo l’incontro immortalato in quel video, Armanna si presentò in procura per accusare i vertici dell’a società’ ENI.
Secondo i giudici che hanno assolto i vertici Eni, Il contenuto di quel video, era “dirompente in termini di valutazione dell’attendibilità intrinseca perché rivela che Armanna, licenziato dall’Eni un anno prima, aveva cercato di ricattare la società petrolifera preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare “una valanga di merda” sui suoi dirigenti. E non solo. Il pm Storari aveva avvisato i suoi colleghi della possibilità che Armanna e Amara altro non fossero che due calunniatori.
Dopo gli interrogatori di Amara nell’ambito dell’inchiesta sul falso complotto Eni, il pm Storari trasmise al’ aggiunto De Pasquale ed al pm Spadaro delle chat trovate nel telefono dell’ex manager, dalle quali sarebbe emerso come quest’ultimo avesse versato 50mila dollari al teste Isaak Eke per fargli rilasciare delle dichiarazioni accusatorie nei confronti di alcuni coimputati, il cui ruolo era centrale nel processo Eni : era lui, infatti, l’ipotetica fonte di tutte le informazioni di cui era in possesso Armanna relativamente alla presunta corruzione e ai pagamenti indebiti. Armanna aveva inoltre prodotto delle conversazioni whatsapp con l’ad Claudio Descalzi e il capo del personale Eni Claudio Granata, per dimostrare che gli stessi gli avrebbero chiesto di ritrattare o attenuare le accuse di corruzione nel caso Opl245 in cambio della riassunzione e guadagni importanti tramite la società nigeriana Fenog. Ma secondo una perizia informatica richiesta dall’allora procuratore aggiunto Laura Pedio sul telefono di Armanna – mai sequestrato prima del luglio 2021, nonostante quei messaggi fossero stati anche consegnati strumentalmente al Fatto Quotidiano – quelle chat sarebbero un falso clamoroso.
Secondo la perizia informatica i messaggi inviati dall’ex manager a Granata e Descalzi non sono mai arrivati ai destinatari da lui indicati, anche perché i numeri ascritti ai due all’epoca non erano nemmeno attivi e, quindi, non esisteva alcun traffico telefonico. Fatti questi che erano stati ignorati dai due magistrati, che peraltro tentarono senza riuscirci di inserire Amara nel processo, sfruttando solo una parte delle sue dichiarazioni, secondo le quali i legali di uno degli imputati del processo Eni-Nigeria sarebbero stati in grado di avvicinare il presidente Tremolada. Una notizia questa rivelatasi infondata: la procura di Brescia, infatti, ha archiviato l’indagine senza alcuna iscrizione nel registro degli indagati.
A seguito di questi comportamenti vergognosi, lo scorso maggio il Csm aveva “retrocesso” De Pasquale, passato dal ruolo di aggiunto a quello di pm. Nel deliberare la non conferma nel ruolo, Palazzo Bachelet aveva evidenziato “l’assenza dei prerequisiti della imparzialità e dell’equilibrio, avendo (De Pasquale, ndr) reiteratamente esercitato la giurisdizione in modo non obiettivo né equo rispetto alle parti nonché senza senso della misura e senza moderazione“.
Nel corso del processo I due imputati si sono difesi in aula dichiarando che gli elementi raccolti da Storari erano “ciarpame” trasmesso in maniera non formalmente spendibile. Quel materiale avrebbe potuto sì essere richiesto al collega, ma il primo comma dell’articolo 430 del codice di procedura penale, ha spiegato in aula l’avvocato Massimo Dinoia, prevede una facoltà, per i pm, di attività integrativa d’indagine, che non può diventare un obbligo. De Pasquale e Spadaro, quindi, avrebbero deciso legittimamente di non avvalersi di tale facoltà, non richiedendo a Storari quei documenti che ritenevano inutili. Secondo De Pasquale, la testimonianza di Armanna non era decisiva per il processo, in quanto la responsabilità degli imputati sarebbe emersa dalle prove documentali.
Queste dichiarazioni avevano spinto la procura a chiedere persino il diniego della sospensione condizionale, sostenendo che, rimanendo libero e in servizio, avrebbe potuto reiterare il reato. Secondo i pm di Brescia, la tesi della difesa sarebbe inaccettabile: “L’attività integrativa di un’indagine – hanno dichiarato in aula – va depositata indipendentemente dal fatto che il pm l’abbia svolta personalmente o l’abbia ricevuta da altra autorità giudiziaria, perché il giudizio di rilevanza su quell’attività non è di esclusivo appannaggio del pm, ma anche della difesa. Nel nostro ordinamento il pubblico ministero agisce sempre e comunque nell’interesse della giustizia e mai in quello proprio, con il corollario dell’indifferenza sua all’esito del processo“.
Le motivazioni della sentenza verranno depositate tra 45 giorni
. La difesa ha già annunciato il ricorso, infatti secondo l’ avvocato Dinoia si tratta di “un pericoloso precedente – ha dichiarato al Dubbio -, perché pone in forse adesso addirittura il principio dell’autonomia processuale del pm. Era una situazione molto particolare: l’accusa è che i due pm non hanno depositato dei documenti, non prove, che è una cosa diversa. E i due pm questi documenti non li avevano, è pacifico. Avrebbero dovuto chiederli, ma il pm, in base all’articolo 430, è padrone di fare o non fare attività integrativa d’indagine. Se una persona esterna al processo, come Storari, può dire “devi fare questo e compiere questa attività di indagine pur non sapendone nulla di quel processo” e si rischia di andare in galera – ha concluso – i processi saranno condizionati dall’esterno. Basta mandare degli atti e il pm sarà obbligato a depositarli“.
“Siamo di fronte ad una sentenza giusta. I Pubblici Ministeri sono Magistrati tanto quanto lo sono i Giudici e non possono e non devono nascondere prove, anche quando non sono favorevoli all’accusa. Un caso che non dovrà ripetersi e che non deve scalfire la fiducia nell’operato dei Pubblici Ministeri“, commenta l’ avv. Pasquale Annicchiarico, partner dello studio legale Dentons e avvocato di Gianfranco Falcioni, ex console onorario per l’Italia in Nigeria ed unica parte civile nel dibattimento.