ROMA – Nella tempesta legale degli ultimi mesi, Facebook ha faticato non poco a definirsi un “editore” a chiare lettere, arrivando a lanciare persino un magazine Grow, dedicato a manager e uomini d’affari.
Mark Zuckerberg ha tentato infatti di mantenere la posizione sulla natura del proprio socialnetwork sul lato prettamente tecnologico, definendola una piattaforma abilitatrice, ma sicuramente non può definirsi un “publisher” , cioè un editore a 360 gradi né una media company.
La strategia che era già apparsa indebolirsi con le apparizioni del fondatore di fronte alle commissioni di Camera e Senato statunitensi, così come dinnanzi al Parlamento Europeo, adesso trova ora una nuova conferma, che peraltro è riscontrabile anche nelle corrispondenze inviate dai legali italiani del social network alla Polizia Postale per delle richieste di sequestro di pagine e profili diffamatori.
Il Guardian ha infatti individuato una strategia difensiva nel corso di una causa legale statunitense nella quale Facebook si definisce proprio “publisher” per cavarsela e supportare la propria versione dei fatti. È avvenuto lunedì scorso durante un’udienza legata a una causa intentata da una “startup” che accusa la piattaforma guidata da Mark Zuckerberg di truffare gli sviluppatori tagliando il loro accesso ai dati degli utenti.
A quel punto i legali che rappresentano il socialnetwork hanno sostenuto che Facebook è un editore e può esercitare discrezione editoriale, in base alle prerogative del Primo emendamento della Costituzione americana. Una posizione molto debole e difficile da sostenere, altrimenti dovrebbe pagare circa un miliardo di collaboratori, cioè i titolari dei contenuti pubblicati su ogni singola pagina.
Una crisi d’identità ? A condurre Facebook verso questa strumentale ammissione è stata la startup Sex4Three secondo la quale Zuckerberg avrebbe attuato uno schema “malevolo e fraudolento” per sfruttare i dati degli utenti e spingere i concorrenti fuori da quel prezioso mercato delle informazioni personali.
Secondo gli sviluppatori, Facebook ha prima convinto a sfornare applicazioni e servizi per il social, garantendo assoluto accesso a informazioni e dati personali, successivamente a partire dal 2015 lo ha impedito. Una lite giudiziaria un po’ paradossale ma che consente di capire quale fosse la percezione di totale libertà rispetto alla “privacy” degli utenti da parte degli sviluppatori che hanno collaborato con Facebook.
Una parte della causa accusa Facebook di sfruttare la sua app per spiare nei messaggi fra utenti, geolocalizzare le persone e leggerne illegittimamente le conversazioni. Ma è il metodo con cui il gigante ha scelto di difendersi che costituisce un precedente significativo: autodefinendosi un editore, qualcosa che non ha mai voluto essere in passato, e stabilendo che la decisione di impedire l’accesso ai dati è “la quintessenza della funzione di un editore”, come ha spiegato Sonal Metha, legale della società in tribunale.
In pratica, in pubblico Facebook nega di essere un editore ma in Tribunale tale attività editoriale viene strumentalmente rivendicata per avvalersi del Primo Emandamento. Una delle solite “furbate” di Zuckerberg che stanno per finire.