di Mario Calabresi*
Gentile sottosegretario all’Editoria Vito Crimi, ieri, a pochi giorni dal suo insediamento alla presidenza del Consiglio, in più di un’intervista ha spiegato cosa vuole fare per garantire un’informazione libera e pluralista. Leggendo le sue parole abbiamo ritrovato subito un cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle: l’abolizione del finanziamento pubblico ai giornali.
Faceva già impressione e rabbia sentirlo dire da una forza di opposizione e in campagna elettorale, oggi fa ancora più effetto – anzi, mi permetta, fa scandalo – che lo affermi un esponente di governo. Perché il finanziamento pubblico ai giornali non esiste da tempo. Quotidiani come Repubblica, Il Corriere della Sera, La Stampa o il Fatto non ricevono soldi dei contribuenti, ma vivono delle copie che vendono e della pubblicità. Finanziamenti sono previsti solo per giornali di fondazioni, cooperative e testate parrocchiali, ma non per noi.
Mi chiedo allora a cosa si riferisca e se queste parole non suonino ancora come un attacco e una delegittimazione verso una stampa che è mal tollerata per le sue critiche. Nelle stesse interviste annuncia di voler togliere l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di diffondere attraverso i giornali gli avvisi sugli appalti e le gare.
Si tratta di una forma di trasparenza nell’uso del denaro dei contribuenti che deve essere considerato il minimo sindacale della civiltà in ogni Paese democratico. Ed è sorprendente che proprio l’esponente di una forza politica che ha fatto della trasparenza una bandiera voglia abolirla. A meno che non si tratti di un modo per togliere un introito ai quotidiani per metterli in difficoltà.
Ci aveva provato anche il governo Renzi e anche allora tutti gli editori la vissero come una minaccia impropria.
Chiede poi che ci sia trasparenza su chi sono gli inserzionisti dei quotidiani e, di nuovo, mi chiedo cosa significhi. Ogni giorno sfogliando le pagine si vede chi fa pubblicità, è sotto gli occhi di tutti con chiarezza. Inoltre i grandi investitori pubblicano ogni anno i loro bilanci in cui si vede quanto spendono, come e dove. Nei nostri bilanci d’altra parte può trovare l’incidenza della pubblicità sul fatturato. Cosa ci vuole dire allora?
Ho nelle orecchie i racconti che mi fanno colleghi ungheresi e polacchi di come i governi di quei due Paesi intervengano pesantemente per bloccare la pubblicità sui giornali d’opposizione, premendo su tutti i gruppi che hanno partecipazioni statali e indicando a tutti gli altri chi sono i nemici. Spero di sbagliarmi ma c’è in giro una preoccupante aria di bavaglio e di resa dei conti.
Infine si interroga, sul mensile Prima Comunicazione, su quali siano le ragioni che collocano l’Italia al quarantaseiesimo posto nella classifica della libertà di stampa. Elenca tre motivi: mancanza di editori puri; mancanza di una vera tutela della professione che garantisca la libertà dei giornalisti e – di nuovo – i finanziamenti pubblici “dati a pioggia e senza freni”.
Purtroppo siamo in fondo a quella classifica per ben altri motivi: perché abbiamo un numero record di giornalisti nel mirino delle mafie e della criminalità organizzata che vivono sotto scorta; perché nel nostro Paese la libertà di stampa è minacciata da un numero abnorme di querele fatte dai poteri politici e economici per intimidire chi fa informazione; infine perché da noi la diffamazione a mezzo stampa è un reato penale per cui è prevista la galera, caso unico in Occidente.
La nostra informazione andrebbe protetta e sostenuta, non indicata come un bersaglio. Tra l’altro proprio l’ultimo rapporto di Reporters sans frontières sottolinea come “numerosi addetti dell’informazione sono sempre più preoccupati per la recente vittoria alle elezioni legislative di un partito, il Movimento 5 Stelle, che ha spesso condannato la stampa per il suo lavoro e che non esita a comunicare pubblicamente l’identità dei giornalisti che lo disturbano”.
Gentile sottosegretario l’editoria vive tempi di faticosa e appassionante trasformazione: da chi ricopre il suo ruolo non ci aspettiamo certo regali o prebende, ma nemmeno ostacoli o avvertimenti. Mi auguro che la campagna elettorale finisca una volta per tutte e che venga il tempo in cui ci si possa confrontare sulle cose reali e sul valore del pluralismo, che le dovrebbe stare particolarmente a cuore. Buon lavoro.
*editoriale del direttore del quotidiano LA REPUBBLICA