di LINDA VARLESE
Il ragionamento che ha condotto il Professore Giuseppe Remuzzi, Direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri e la sua squadra di ricercatori, ad approfondire e studiare il potenziale degli antinfiammatori nella cura domiciliare dei pazienti di Covid-19 parte da un assunto molto semplice: il coronavirus è una malattia che se curata nella fase precoce basta poco per essere sconfitta. Ce lo racconta lui stesso: “Tutto è partito dall’intuizione del Primario di Malattie Infettive del nostro ospedale, il professore Fredy Suter, e da un gruppo di medici che hanno lavorato con lui e con noi: fin dall’inizio avevano l’idea che la malattia di Covid-19 si potesse curare a casa nelle fasi molto precoci, fin dai primi sintomi, senza aspettare il tampone, semplicemente come si cura qualunque infezione delle alte vie respiratorie e cioè con degli antinfiammatori”.
Fin qui, l’intuizione. Come sono andati avanti? Come si è arrivati allo studio che adesso è pubblicato in preprint?
“Hanno trattato tanti pazienti, secondo loro nessuno di questi pazienti aveva bisogno di ospedale e riuscivano a curarli tutti a casa. Naturalmente non è un fai da te, ci vuole che il medico visiti il paziente o comunque si occupi del paziente e lo segua. E’ una terapia che si modifica nel corso dei giorni a seconda di come evolve la malattia, però i risultati erano molto buoni. Tuttavia fino a quel momento non avevano un valore scientifico, per questo abbiamo condotto questo studio che, essendo retrospettivo, ha i suoi limiti, lo premetto”.
Ci spieghi meglio
“L’unico studio che potevamo fare era retrospettivo, cioè andando a vedere come erano andati dei pazienti, trattati con antinfiammatori ai primi sintomi, che avevamo selezionato per essere identici a un altro gruppo che abbiamo trattato con sistema tradizionale, cioè con vigile attesa e tachipirina. Non potevamo fare uno studio prospettico, cioè reclutando un certo numero di pazienti a un trattamento e randomizzandoli a un altro trattamento perché al Ministero della Sanità avevano già stabilito delle linee guida per i medici e il comitato etico non ha acconsentito. D’altra parte però noi abbiamo dato un razionale farmacologico molto forte a quello che proponevamo e questo è stato il contributo del Mario Negri“
Nella pratica, quale è questa cura a base di antinfiammatori che proponete?
Utilizziamo infiammatori, in particolare Celecoxib perché abbiamo trovato un forte razionale in tutta la letteratura internazionale per la capacità di Celecoxib di inibire una serie di mediatori dell’infiammazione. In altre parole eravamo certi della sua efficacia per evitare l’iiperinfiammazione da una parte e la conseguente attivazione del sistema immunologico. E poi Nimesulide, che ha le stesse proprietà. Questi non sono farmaci da utilizzare fai da te, voglio ribadirlo, ma sotto osservanza medica. In alternativa utilizziamo l’ Aspirina e questo per i primi 6-8 giorni. Questa somministrazione avviene in fase precoce, alla comparsa dei primi sintomi. Poi si fanno degli esami in laboratorio dopo 8-10 gg, se ci sono segni di eccessiva infiammazione si somministra cortisone, mai prima di 8 giorni, e poi eventualmente Eparina nel caso ci siano segni di attivazione della coagulazione.
Torniamo allo studio prospettico…
Da un certo punto in poi abbiamo seguito 90 pazienti che avevamo curato con antinfiammatori e di cui avevamo tutte le informazioni e li abbiamo confrontati con 90 pazienti identici curati come si fa di solito, con tachipirina e vigile attesa.
Cosa intende per “identici”?
Che ci hanno permesso (ed è la forza di questo studio) un confronto perfetto, perché i due gruppi di pazienti sono identici per età, sesso, comorbilità, malattie cardiovascolari, diabete, sovrappeso, sintomi, febbre, mialgia, dispnea, dolore toracico… Insomma tutto era uguale, caratteristiche e sintomi all’esordio.
E i risultati sono stati sorprendenti…
Sì, 90% di riduzione dei giorni di ospedalizzazione e 90% di riduzione dei costi è una cosa che la comunità medica deve sapere secondo noi, subito. La durata dei sintomi non si riduce rispetto alla cura tradizionale, è uguale. Ma l’obiettivo secondario che ci eravamo prefissati è centrato: 2 ospedalizzazioni su 90 con la nostra cura; 13 su 90 nei pazienti trattati con cura tradizionale. Tutto questo è nello studio che adesso è pubblico, in preprint, in attesa di essere pubblicato ufficialmente su una rivista scientifica.
Possiamo aspettarci che questa terapia possa sostituire quella tradizionale?
Ogni medico è giusto che parta da quello che ritiene opportuno rispetto al paziente che ha davanti. Il nostro sarà uno dei tanti studi a cui il medico può riferirsi: è il nostro contributo. Ma ribadisco che questa terapia ha bisogno di un intervento precoce. In generale non sono d’accordo con la “vigile attesa” perché il virus si moltiplica moltissimo nei primi 6 giorni dall’inizio dei sintomi, poi la moltiplicazione diminuisce e subentrano altre cose.
L’intervento tempestivo, dunque, è fondamentale…
Ovviamente. Oltre agli antinfiammatori da noi utilizzati c’è allo studio presso l’Ospedale di Negrar, vicino Verona, l’uso dell’ Ivermectina, ad esempio. I risultati non li sappiamo ancora, ma non mi meraviglierebbe se funzionasse altrettanto bene degli antinfiammatori che utilizziamo noi, dato molto precocemente. Anche gli anticorpi monoclonali funzionano se vengono dati entro 10 gg dall’inizio della malattia, altrimenti non funzionano più. Ma l’Ivermectina non è in vendita nelle farmacia, è un preparato galenico, gli anticorpi monoclonali sono molto complessi e molto costosi per questo li danno alle persone che arrivano in certe condizioni al Pronto Soccorso. Quello che proponiamo noi, invece, è una terapia semplice e si può somministrare facilmente, naturalmente sempre dopo giudizio clinico del medico.
Mi sta dicendo che se avessimo utilizzato una cura in fase precoce, senza attendere il tampone, probabilmente non saremmo arrivati a questo punto? Non avremmo avuto ospedali pieni e le conseguenze che vediamo tutti i giorni?
Questo non glielo posso dire io. E’ molto bello, ma molto impegnativo da dire: se fosse così significherebbe che bastava poco per avere un andamento diverso, ma non voglio assolutamente dire questo. Posso solo dire che noi abbiamo avuto in termini di pratica clinica questi risultati. Questo è uno studio che ha dei limiti perché è retrospettivo, anche se siamo già partiti con uno studio prospettico. Però per quanto sia retrospettivo, il numero dei pazienti è giusto, perché è stato calcolato dai nostri statistici per essere in grado di darci una differenza significativa in uno di questi obiettivi qualora ci fosse. E in effetti c’era e la differenza è enorme nell’ospedalizzazioni.
Come si vince dunque la partita contro il coronavirus?
Serve l’attenzione assoluta da parte delle persone, perché distanziamento e mascherina se fatte bene sono anche più importanti del lockdown. Servono delle cure possibilmente semplici che funzionino, magari se ne troveranno altre. Poi c’è il vaccino che è importante, ma non arriva dappertutto e poi c’è l’immunità di chi ha già contratto il virus che consente di avere degli anticorpi. Di recente in uno studio pubblicato su Nature si è scoperto che la variante sudafricana produce anticorpi capaci di combattere qualunque tipo di variante. Sono tante le cose, noi abbiamo portato un piccolissimo contributo a un puzzle molto complesso. Se anche lo studio prospettico confermerà la pratica clinica, che non ha nessun valore scientifico, che ha dei limiti, ma che ha fatto vedere dei risultati così importanti che non possiamo ignorare, le cose potrebbe essere diverse.
Sembra di non uscirne mai, sembra di non vederne mai la fine. E’ davvero così difficile arginare il coronavirus?
Questo virus è difficile da controllare perché con le varianti si diffonde molto rapidamente. Ma non dimentichiamo che ogni anno l’influenza fa dagli 8 ai 20 mila morti e questo pochissimi lo sanno e non suscita nessuna emotività. Quest’anno grazie alle misure di protezione individuali questi morti non ci sono stati, in compenso ne abbiamo avuti di più, ma non è un ordine di grandezza tanto diverso. La cosa che fa stare più male è un’altra: le persone anziane che hanno complicazioni da influenza muoiono in due giorni. Con il coronavirus alcuni guariscono, altri no, la rianimazione è molto penosa per loro, stanno molto male e muoiono dopo un’agonia di 40 giorni. Però non dobbiamo dimenticare che per l′80% delle persone questo coronavirus si risolve come tutti gli altri coronavirus, in maniera molto semplice e guariscono da sole. Per questo è importante il nostro studio: su 90 persone solo 2 vanno in ospedale. 2 rispetto a 13. Non voglio enfatizzare, ma pone le basi per fare altri studi che confermino che effettivamente è così semplice.
Quanto è distante la fine di questo incubo?
Difficile fare previsioni. Penso che fra la bella stagione, la vaccinazione e il fatto che l’epidemie hanno delle campane di 40 giorni e poi tendono a diminuire, mi auguro che a giugno staremo molto meglio di adesso. E poi naturalmente dipende da quanto riusciamo a vaccinare.
Sarebbe meglio fare una singola dose a tutti per accelerare?
Io non ho mai parlato di singola somministrazione, ma di ritardo nella seconda dose perché ritengo che l’importante sia vaccinare soprattutto la popolazione dai 70 anni in su il più rapidamente possibile: il CDC ha fatto vedere che la prima dose di tutti i vaccini conferisce una protezione dell′80% e del 100% per quanto riguarda la malattia grave. Nessuno sottolinea il fatto che il 60-70% di efficacia dei vaccini è relativo a piccoli sintomi. Come ha detto Francis Collins: ‘noi vogliamo non avere la tosse o il raffreddore o vogliamo non ammalarci in maniera grave?’ Se non vogliamo ammalarci in maniera grave la prima dose va fatta rapidamente a tutti: la controprova ce l’hanno gli inglesi: prima dose a tutti, qualche mese fa avevano 1600 morti, oggi ne hanno zero. Un miracolo, non c’è niente in medicina che ho visto funzionare così.
Parliamo di AstraZeneca e dei suoi effetti collaterali…
L’Oms, l’Ema e tutti gli enti regolatori hanno sempre detto che non c’è niente che si può fare prima e non c’è niente che si può fare dopo per minimizzare gli effetti collaterali che sono soprattutto un disagio: mal di testa, stanchezza, febbre. Come se fossero un piccolo Covid, ma che passa in pochi giorni. Per quanto riguarda una complicanza rarissima, la trombosi cerebrale, che è verosimile che dipende al vaccino, ma che è così rara da non potersi comparare agli effetti benefici del vaccino, con una diagnosi molto precoce è verosimile che si possa curare. Tuttavia, ripeto, questa complicanza grave, che colpisce donne in età fertile che in tutta Europa sono state 27 su 29 milioni di vaccini, è rarissima. Non dipende sicuramente dal vaccino, invece, la grande quantità di episodi tromboembolici che si possono verificare e che sono uguali a quelli che si verificano nella popolazione non vaccinata.
*intervista tratta dal quotidiano online HuffPost