Lo scivolone diplomatico (chiamiamolo così) del ministro francese Darmanin contro il il governo italiano ha riportato per qualche ora la politica estera al centro della nostra disputa. Così abbiamo fatto calare il sipario sulle controversie degli ultimi giorni – dalle grandi date della storia patria alle più prosaiche nomine da fare alla Rai. Cosa che per qualche verso potremmo perfino considerare alla stregua di una consolazione.
Il fatto è però che se davvero si vuole aprire un confronto sulle grandi questioni internazionali occorrerà andare più in profondità. E cioè rivisitare le strategie dei partiti in campo, sottraendoli alla suggestione delle parole d’ordine troppo facili e impegnandoli a ridisegnare obiettivi, relazioni, perfino sfumature diplomatiche in un mondo che cambia. Se si decidesse davvero di intraprendere questa strada, probabilmente si scoprirebbe che da ambo i lati dello schieramento politico c’è qualcosa da rivedere.
Giorgia Meloni infatti è europeista, ma molto a modo suo. Ed Elly Schlein è atlantista, ma con più di qualche distinguo. Così, le leader delle principali forze in campo vengono studiate all’estero tutte e due con quel tanto di perplessità che le cancellerie più blasonate solitamente riservano ai paesi sotto osservazione. Cosa che non impedisce loro di cercare nuove strade, ma suggerisce almeno una certa prudenza nel percorrerle.
La leader di Fdi ha smesso i panni dell’euroscetticismo di appena pochi anni fa. Nessuna idea di uscire dall’euro, un doveroso rispetto per le clausole del patto di stabilità, una fiduciosa attesa per le prossime rate del Pnrr. Di questo passo si può sperare che prima o poi la sua maggioranza si pieghi alla necessità di ratificare il Mes, quantomeno per non sabotare gli altri paesi che decidessero di farvi ricorso. Non è proprio l’europeismo più canonico di un tempo, ma almeno è un significativo passo avanti.
Di contro, però, Meloni sembra coltivare in vista delle prossime elezioni europee il disegno di scardinare quell’asse franco-tedesco che ha governato le sorti dell’Unione in tutti questi decenni. Non è un mistero che lei lavori per un’alleanza tra conservatori e popolari, con l’intento di ridurre al minimo l’influenza dei socialisti e di quei centristi che sono stati decisivi nel dare all’Europa il verso che conosciamo. Fin qui, niente che desti scandalo. Ma questo disegno suona a sua volta anche come un robusto tentativo di disarticolare gli equilibri politici in Francia e in Germania. E qui, qualche problema può esserci. Infatti, se questa operazione andasse in porto con caratteri troppo dirompenti lo spazio dei paesi del gruppo di Visegrad si amplierebbe ancora e il nostro continente finirebbe per assumere una fisionomia parecchio diversa da quella che i padri di una volta ci hanno lasciato in eredità.
Al capo opposto dello spettro politico, la nuova leader del Pd professa il suo culto per l’America progressista. Quella di Biden, e oggi del sostegno alla causa ucraina. E ancora prima, di quel Barack Obama per il quale lei partecipò da volontaria alla campagna di rielezione. Fin qui, tutto nella norma. E però capita che nel frattempo il M5S si dedichi a raccogliere le firme proprio contro l’invio di armi all’Ucraina. E che Schlein si guardi bene dal mettere in chiaro come una simile iniziativa sia lesiva di ogni possibile alleanza con il suo partito. Una reticenza che si può capire -faticosamente capire- nell’urgenza domestica della politica di casa. Ma che appena varcati i nostri confini finisce per rianimare tutte le diffidenze del caso sulla nostra affidabilità nei passaggi più critici. E’ ovvio che per questo pertugio può farsi largo la tentazione di rendere meno saldi i nostri legami atlantici. Com’è del resto nella tradizione di una sinistra d’antan a cui lo zelo atlantista ha sempre fatto massicciamente difetto.
Il fatto è che in questi frangenti si dovrebbe ribadire un punto fondamentale. E cioè la preminenza della politica estera su quella di casa. Con tutto quello che ne consegue. Fu questa la formula magica del dopoguerra, quando europeismo ed atlantismo misero radici a dispetto di contrarietà e diffidenze che si facevano sentire perfino all’interno del perimetro delle maggioranze di quell’epoca. Contrarietà e diffidenze che la classe dirigente di quella stagione fu capace di tenere a bada. Con grande vantaggio per le generazioni che sarebbero venute dopo.