di Marco Follini
E’ presto per dire se il brutto pasticcio del prezzo della benzina in salita produrrà per il governo un consenso in forte discesa. Finora la Meloni era riuscita a non pagare dazio per le difficoltà dei suoi primi giorni a Palazzo Chigi. Un po’ per fortuna, un po’ per bravura, un po’ per le circostanze e un po’ anche per l’involontario favore che le arreca quasi giorno la cronaca di una opposizione smarrita nei suoi meandri. Sta di fatto che -almeno fino ad oggi- i sondaggi hanno dato una certa consistenza a quella “luna di miele” che solitamente accompagna i primi passi di un nuovo governo.
L’aumento delle accise sui carburanti complica ora un po’ le cose. Tra automobili, camion e motorini si contano infatti più di 50 milioni di mezzi che si riforniscono quasi quotidianamente alle pompe di benzina. Quanto basta perché tutti i cittadini facciano i loro conti e traggano le loro conclusioni. Non a caso, del resto, nel nostro lontano passato furono soprattutto i governi più deboli e traballanti quelli che più tentarono di guadagnare un’oncia di popolarità promettendo il taglio del prezzo dei carburanti. Parlo degli esecutivi guidati da Pella negli anni cinquanta e da Tambroni nei primissimi anni sessanta. Come a cercare di porre così rimedio alla strutturale debolezza di quei governi. Che peraltro chiusero i battenti subito dopo.
Ora, nel caso di Meloni le cose appaiono più complesse. Infatti, è vero che il (la) presidente del consiglio sta pagando un tributo di popolarità e di credibilità su questo fronte. Ma è vero anche che siamo appena agli inizi, e che l’esecutivo può ancora contare sulla spinta propulsiva che nasce da un’investitura elettorale piuttosto massiccia. Dunque, sarà il caso di aspettare ancora un po’ prima di trarne conseguenze troppo definitive.
Piuttosto, questa vicenda solleva un problema più ampio. Ed è quello dello scarto tra le parole pronunciate durante i lunghi inverni di opposizione e le possibilità più realistiche e assai meno generose e immaginifiche delle successive stagioni di governo. Cosa che non riguarda solo questo esecutivo, ovviamente. Ma racconta tutte le difficoltà e le incoerenze in cui si sono dibattute le coalizioni che hanno via via preso forma in questi anni. Basti pensare alla scorsa legislatura, tra le sue mutevoli, mutevolissime combinazioni annunciate fino al giorno prima e i comportamenti tenuti il giorno dopo.
Si ricorderà che appena cinque anni fa il M5S aveva proclamato di voler governare in solitudine (e abolendo la povertà, nientepopodimeno). Salvo poi tessere alleanze a tutto campo: con Salvini, indi col Pd, indi ancora con quasi tutti, fino a Berlusconi compreso. Incoerenze che peraltro si rispecchiavano a loro volta nelle altrettante, e altrettanto gravi, incoerenze dei loro avversari -e alleati al tempo stesso. Tutti, a parte Fdi in questo caso.
Né si può dire che il tema riguardi solo le formule di governo. E’ nel merito dei provvedimenti, infatti, che si registrano le capriole più disinvolte. Il giorno prima si annunciano misure magnifiche e progressive. E il giorno dopo, inesorabilmente, si fanno i conti con la scarsezza delle risorse, l’impotenza del debito pubblico e i massicci condizionamenti dell’economia globale. Fino a fare il contrario di quel che s’era appena detto.
Dunque sarebbe il caso di non esagerare con le promesse fantasmagoriche. E di commisurare semmai le proprie buone intenzioni con la meno buona, o meno propizia, realtà dei vincoli che ciascun governo si trova davanti non appena abbia giurato nelle mani del capo dello Stato.
A nessuna campagna elettorale si addice il saio del penitente. Ed è fin troppo noto che gli elettori tendono a non votare partiti e coalizioni che si presentano con un volto troppo arcigno. Tuttavia, la conversione che si produce il giorno dopo non appare meno costosa. E quella attitudine a promettere più di quel che si può mantenere prima o poi torna come un boomerang addosso a chi esagera nell’alimentare aspettative. Anche in questo caso, verrebbe da dire: meglio meno ma meglio (copyright Mieli). Formula che venne adoperata a suo tempo da Lenin, che pure non si può dire fosse proprio un maestro di buone maniere democratiche