di Amando Spataro
La decisione della Procura di Agrigento di far sbarcare a Lampedusa i migranti rimasti a bordo della Sea Watch ha suscitato, da un lato, la prevedibile reazione del “Ministro di tutto” e, dall’altro, sentimenti di gratitudine verso la magistratura da parte di chi crede nel dovuto rispetto dei diritti fondamentali e nella separazione dei poteri in democrazia.
L’incompatibilità tra queste opposte posizioni, però, è tale che occorre parlare e spiegare perché un ministro, qualora ipotizzi un reato nelle attività di soccorso in mare, non può, indipendentemente dal fondamento della sua opinione, disporre o richiedere il sequestro di una nave e impedire lo sbarco di migranti.
Il sequestro in un processo penale, con quanto ne consegue, è atto giudiziario, compete solo ai pubblici ministeri e alla polizia giudiziaria che è da loro funzionalmente diretta. Ma secondo il ministro dell’Interno, anche in presenza del sequestro, i migranti non dovevano sbarcare. Al di là dei principi vigenti in materia, forse egli pensa che i migranti dovessero essere custoditi in un ufficio corpi di reato, anziché scendere a terra?
Il procuratore di Agrigento, come ha reso noto, sta indagando sul reato di immigrazione clandestina e ne valuterà la sussistenza, ma tale doverosa attività non attenua in alcun modo, neppure nel caso di accertata responsabilità del comandante o dell’equipaggio della nave, il suo obbligo (non solo “suo” a dire il vero!) di tutelare i diritti delle persone e i loro beni fondamentali, fra i quali in primis la salute, l’integrità fisica e la dignità. Né attenua il suo dovere di interrompere ogni attività che possa apparire illegale, come già ritenuto dal Tribunale dei Ministri di Catania nel caso Diciotti.
L’esecutivo, a sua volta, non può, in ragione di proprie opposte convinzioni e aspettative (rispetto alle quali la magistratura deve essere totalmente indifferente), intaccare il principio della separazione dei poteri costituzionalmente tutelato, addirittura ipotizzando condotte illegali della procura agrigentina (favoreggiamento dell’immigrazione clandestina).
È facile in questa situazione individuare chi ha esorbitato dalle proprie competenze istituzionali, ma — in tempi di difficile partita di civiltà — bisogna “scendere in piazza”: un invito che non ha rapporto né con le bandiere di parte e con gli slogan a effetto né con la divisa di Zorro, ma solo con l’immagine luminosa della democrazia.
Il procuratore di Agrigento non ha certo bisogno di essere difeso, né di essere applaudito nelle piazze. Egli ben conosce i sentimenti di solidarietà e rispetto che la parte consapevole del Paese gli dedica: non si è mai soli, infatti, quando si cammina in avanti, pensando e agendo con lucidità per il rispetto della legge e la difesa della dignità collettiva.
Ma i “cittadini consapevoli” — come a me piace definirli — devono “scendere in piazza”, dovunque sia possibile, anche nelle scuole, nelle case e nei luoghi di lavoro, dando luogo a una contronarrazione pacata e chiara che, opponendosi alle logiche elettorali, serva a far comprendere a tutti, da un lato, che è giusto invocare l’intervento dell’Europa per rendere effettivi e operanti gli accordi sovranazionali esistenti in tema di accoglienza dei migranti e così vincere le inadempienze di altri governi e, dall’altro, che questo obiettivo non si può raggiungere né violando gli obblighi che in materia gravano anche sull’Italia, né con atteggiamenti polemici nei confronti dell’Europa.
Serve guadagnare autorità e credibilità, dimostrando la propria irrinunciabile fedeltà agli obblighi internazionali e ancor prima ai principi affermati nella Costituzione italiana.